La Speranza e la nostra speranza
C’è un passo, nella Prima lettera ai Tessalonicesi, in cui Paolo afferma in modo netto, inappellabile, che «gli altri (coloro cioè che non credono all’evangelo – ndr) non hanno speranza» (1Tess 4,13). Evidentemente Paolo sa bene che anche i pagani sperimentano il fenomeno umano, universale, dello sperare. Non possiedono però la speranza di cui parla l’evangelo. Essa non proviene dalla nostra vita né dal nostro mondo, non prende forma dalla nostra storia passata, presente o futura, né da un temperamento ottimista o dall’educazione ricevuta. La speranza di cui parla l’evangelo è quella che Dio stesso di schiude, e che noi dobbiamo a lui. Egli la dona, la fa crescere, la mantiene, perché quella speranza, in fondo, è lui stesso. Quale grazia è stata data a Paolo perché abiti in lui questa forza viva, che lo sostiene nelle sofferenze, nei fallimenti, nelle persecuzioni?
Ci siamo soffermati più volte sull’incontro fontale con Gesù crocifisso e risorto, fatto da Paolo sulla via di Damasco. È necessario ritornarvi anche ora, perché la portata di quell’esperienza è enorme. Segna l’inizio di una vita nuova, di una nuova visione di Dio e del mondo.
Innanzitutto Paolo sperimenta che Gesù di Nazaret, crocifisso e sepolto, è vivo. A questa buona notizia rischiamo di fare l’abitudine, ma si tratta di una notizia clamorosa, perché se egli è vivo, significa che è risorto. E se è risorto, la morte è stata vinta, e i tempi messianici, attesi da un fariseo come Paolo, sono iniziati. Agli occhi di Paolo si apre improvvisa questa nuova, ampia visione, che riguarda il mondo intero e l’intera storia della salvezza. Paolo scopre che il Risorto è la vera speranza d’Israele. Lo dirà davanti al sinedrio, in sua difesa: «Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (At 23,6). Dall’incontro con il Risorto la fede israelita di Paolo viene trasfigurata, non abolita, e il progetto d’amore di Dio per l’uomo si ridefinisce, passando attraverso lo scandalo della croce. Il mistero che Paolo esprime con tratti personalissimi e appassionati – «egli mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20) – si traduce nella possibilità di una vita libera dal potere del peccato, non più sotto l’ombra della morte. Questo è evangelo, queste sono buone notizie. Lo Spirito del Risorto, effuso su tutti i credenti, è ciò che permette di camminare verso questa visione di un mondo rinnovato. Ecco perché le immagini che Paolo usa per parlare dello Spirito sono intrise di speranza: il dono dello Spirito è la «caparra», la prima rata (2 Cor 1,22;5,5), è la «primizia» della mietitura, l’inizio del raccolto (Rom 8,23).
Un inizio faticoso, certo, perché la gioia del raccolto compiuto appare ancora lontana: «Noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente… Nella speranza infatti siamo stati salvati» (cfr. Rom 8,23-24). Paolo vive di questa certezza, se ne lascia persuadere, e il suo sguardo sul mondo e sulla storia ne resta profondamente segnato. La stessa certezza abiti anche la nostra vita, e ci renda testimoni della speranza evangelica, quella che «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5).
(L’autrice è monaca di clausura tra le clarisse del monastero di Santa Chiara a Milano)