Breve incursione nella realtà di Ain Arik, un villaggio palestinese di circa 1.700 abitanti alle porte di Ramallah. «Ciò che distingue Ain Arik è la secolare convivenza tra musulmani e cristiani», spiega padre Giovanni, del locale convento della Piccola Famiglia dell'Annunziata, una comunità religiosa di tipo monastico fondata una cinquantina di anni fa da Giuseppe Dossetti. Padre Giovanni, sguardo sereno e accento bolognese che alterna a un arabo perfetto, è ad Ain Arik dal 1989 e ci aiuta a conoscere il profilo di questo agglomerato umano.
Alla moschea di Ain Arik, villaggio di circa 1.700 persone nei pressi di Ramallah, c’è il minareto più alto della Cisgiordania dal quale, a un certo punto, pare uscire il suono delle campane. È solo un buffo effetto sonoro, che tuttavia potrebbe anche rappresentare la realtà, visti gli ottimi rapporti tra la chiesa e la moschea del villaggio.
«Ciò che distingue Ain Arik è infatti la secolare convivenza tra musulmani e cristiani», conferma padre Giovanni, del locale convento della Piccola Famiglia dell’Annunziata, una comunità religiosa di tipo monastico fondata una cinquantina di anni fa da Giuseppe Dossetti. Padre Giovanni, sguardo sereno e accento bolognese che alterna ad un arabo perfetto, è ad Ain Arik dal 1989 assieme a pochi fratelli e sorelle che compongono la famiglia, guida spirituale della comunità cristiana del villaggio, composta da un terzo degli abitanti e suddivisa a sua volta in ortodossi, la maggioranza, e cattolici, circa 150 persone.
Fedeli alla regola dell’Ora et labora, l’attività delle sorelle e dei fratelli è incentrata sulla preghiera, senza disdegnare però l’ufficio per la comunità. La chiesa è stata edificata negli anni Quaranta, ma i primi battesimi registrati risalgono alla fine dell’Ottocento. Prima della costruzione della chiesa veniva un prete da Ramallah a celebrare la messa settimanale in una casa privata. «I cristiani del villaggio sono stati abbandonati per anni, e questa è forse una delle ragioni della loro tiepida partecipazione alla vita religiosa», riflette padre Giovanni.
A ciò si aggiungono i problemi della vita, che sono gli stessi di tutti i palestinesi, cristiani e musulmani: in primis mancanza di lavoro dovuta all’occupazione che impedisce la mobilità, anche se al villaggio non c’è miseria. Gli uomini possono cercare lavoro nelle zone circostanti, soprattutto a Ramallah, «ma c’è molta competizione», annota ancora il padre. «I lavoratori edili di Ain Arik si lamentano di quelli che vengono dalle aree più povere, come Jenin, che arrivano, si accampano in tende o camion e offrono manodopera a un costo inferiore». Le leggi del mercato del lavoro sono uguali dappertutto, come simili sono le convenzioni che influenzano il lavoro femminile: gran parte delle donne del villaggio non lavora perché le tradizioni non lo permettono. «Una delle ragazze della nostra parrocchia – spiega il monaco – ha preso il diploma di segretaria e ha trovato lavoro, ma il padre non ha voluto che andasse in ufficio dove c’erano anche degli uomini».
Le cose comunque piano piano stanno cambiando, da questo punto di vista e non solo. «Quando sono arrivato – ricorda padre Giovanni – era in corso la prima intifada; i soldati israeliani avevano una postazione qui, c’erano il coprifuoco e la guerriglia. Poi siamo passati alla breve fase della speranza, dopo la conferenza di Madrid (ottobre-novembre 1991 – ndr): ricordo che in quei giorni passava perfino qualche macchina di ebrei, poche in realtà, con le bandiere palestinese e israeliana fuori dal finestrino». Lo sguardo di padre Giovanni si perde nei ricordi e poi si fa cupo: «Ora non è più così, specialmente dopo la guerra di Gaza del dicembre-gennaio scorso, che il villaggio ha vissuto con molto dolore e un accresciuto astio contro Israele».
Ain Arik è particolare anche perché non è stato lacerato dalle lotte interne ai partiti palestinesi: la maggioranza è di Fatah, ma ci sono anche famiglie di Hamas e il clima non è teso. «Gli uomini di Hamas trattano bene anche noi monaci» ci spiega ancora padre Giovanni, che ricorda quando un anno fa Hamas organizzò un campo estivo per i bambini e, non avendo uno spazio abbastanza grande, usufruì del cortile della chiesa messo a disposizione dai monaci. «Proprio qualche giorno fa è stato liberato un prigioniero di Hamas e, come di consueto, sono andato a fargli visita. Beh, sono stato accolto con grande calore», sorride padre Giovanni. Insomma Ain Arik, nel suo piccolo, potrebbe essere preso a modello di convivenza tra fedi e posizioni diverse, una dimostrazione che ciò non è impossibile.