Rabban Shimon, figlio di Gamaliel, diceva: «Per tre cose il mondo si conserva: per la giustizia, per la verità e per la pace» (Mishnah, ‘Avot I,18). Altri maestri della tradizione ebraica precisano che queste tre cose in realtà sono una sola: se si pratica la giustizia si rende visibile la verità, alla luce della quale si possono operare scelte nel rispetto dei diritti di tutti, e non può che risultarne la pace. Essi infatti ritengono che spesso il male colpisce il mondo per il ritardo della giustizia, o per la perversione della stessa, oppure a causa di coloro che non interpretano la Torah, cioè l’insegnamento rivelato, secondo il suo vero senso, arrivando talvolta a stravolgerla o – peggio ancora – a servirsene come strumento di potere che può giustificare ingiustizie e violenze di vario genere. E sempre riguardo al valore della giustizia, l’insegnamento tradizionale sottolinea che la medesima è più cara a Dio degli stessi sacrifici al Tempio: «I sacrifici erano offerti soltanto dentro il Santuario, ma la rettitudine e la giustizia si esercitano tanto dentro che fuori. […] I sacrifici sono offerti soltanto in questo mondo, mentre la rettitudine e la giustizia devono essere praticate in questo mondo e nel Mondo Avvenire. Il Santo, che benedetto sia, dichiara: "la rettitudine e la giustizia che praticate, mi sono più care del Tempio" » (Deuteronomio Rabbah V,3). Il culto autentico è pertanto la realizzazione del bene per tutti attraverso una «vita retta», perché è questo che «è caro» a Dio. Sulla stessa linea Shimon Hatzadiq – che significa Simone il Giusto – soleva dire: «Il mondo si regge su tre cose: sulla Torah, sul servizio divino e sulle opere di bene» (Mishnah, ‘Avot I,2).
Si pone in tale modo l’accento sull’importanza di un insegnamento rivelato che possa orientare le scelte concrete della vita nella fedeltà sia a Dio (servizio divino) che all’uomo (opere di bene), e che per questo possano essere segno autentico di giustizia, di verità e di pace.
Secondo la tradizione rabbinica sono dunque questi i «pilastri» del mondo dai quali dipende la sua conservazione, che Dio ha lasciato nelle mani degli uomini assoggettando così alla loro libertà il futuro della Sua creazione. Ecco allora l’importanza della continua ricerca del «bene comune», che implica un orizzonte di valori condivisi e la capacità di «opere di bene» senza condizioni: «L’uomo deve essere sempre molto attento al timor di Dio: risponda in maniera dolce, neutralizzando l’ira, usi parole di pace verso i suoi fratelli, verso i suoi parenti e verso ogni creatura, anche con il pagano che incontra per la strada. Se così farà, sarà amato in Alto, gradito in basso e bene accetto alle creature» (Talmud Babilonese, Berakhot 17a). In altri termini: contribuirà al bene di tutti che è anche il suo stesso bene. Il futuro del mondo è quindi nelle mani degli uomini, come ben ricordato da Martin Buber nella parte conclusiva del suo noto saggio intitolato Il cammino dell’uomo, nel quale egli afferma: «Quanto di sé Dio concede alla sua creazione? […] Noi crediamo che la grazia di Dio consiste proprio in questo suo volersi lasciar conquistare dall’uomo, in questo suo consegnarsi, per così dire a lui. Dio vuole entrare nel mondo che è Suo, ma vuole farlo attraverso l’uomo: ecco il mistero della nostra esistenza, l’opportunità sovrumana del genere umano!» (M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajion, Magnano (VC) 1990, pp.63-64).