La collina di Gerico (il tell, nel linguaggio archeologico), dove sorgeva la città biblica (la prima località che gli israeliti incontrarono nella terra di Canaan dopo il passaggio del Giordano) è l’immagine più eloquente dell’abbandono nel quale versa il patrimonio culturale palestinese. Basta fare una passeggiata all’interno dell’area archeologica per avere la chiara percezione del disastro: protezioni e parapetti sfondati, cartelli divelti, didascalie illeggibili, immondizia… Nella morsa dell’interminabile crisi che attanaglia Israele e Palestina, le testimonianze storiche, archeologiche e monumentali sono in grave pericolo, soprattutto per la mancanza di istituzioni locali in grado di curare e tutelare un patrimonio che appartiene a tutta l’umanità. La denuncia della gravissima situazione in atto (resa ancora più problematica dalla recente e sanguinosissima crisi di Gaza) è stata lanciata dalle colonne del numero di gennaio-febbraio 2009 della rivista fiorentina Archeologia viva. Carla Benelli e Osama Hamdan (la prima è membro del team di studiosi diretto fino a pochi mesi fa dal compianto padre Michele Piccirillo; il secondo è docente di conservazione dei beni culturali presso l’Università Al Quds di Gerusalemme e direttore del Mosaic Centre di Gerico) firmano un articolo dal titolo inequivocabile: «Territori palestinesi. Il dramma dei beni culturali».
Abbiamo raggiunto al telefono il professor Osama Hamdan per approfondire l’argomento e per farci spiegare quali soluzioni intravede. «L’intero patrimonio palestinese è in pericolo – spiega -. Ovvio, adesso a soffrire sono soprattutto i beni culturali di Gaza, per la situazione che vive la Striscia. Ma la realtà è ovunque drammatica. Pensi che su 12 mila siti archeologici censiti nelle aree A e B in Palestina (quelle che sono sotto il controllo dell’Autorità palestinese – ndr), solo due sono visitabili e aperti al pubblico, quelli di Gerico, pur nelle loro condizioni precarie. Gli altri siti o complessi monumentali, sono praticamente abbandonati».
Il conflitto che coinvolge da decenni i territori palestinesi continua ad avere effetti devastanti sul patrimonio culturale. Com’è noto, la Palestina è in via di definizione e divisa in due (Cisgiordania e Striscia di Gaza); in parte è ancora soggetta a occupazione militare e poco attrezzata per gestire le vaste risorse storiche e artistiche. Ma basta ricordare il nome di qualche località, per cogliere in tutta la sua importanza il valore storico e religioso dei luoghi di cui si sta parlando: Gerico, con il tell e la città erodiana; Betlemme, con le vestigia cristiane, le piscine di Salomone, il palazzo dell’Herodion e i monasteri del deserto di Giuda. Per non parlare di Hebron, con le tombe dei patriarchi, e Sebastia e Nablus, le città dei samaritani.
Nel contesto degli accordi israelo-palestinesi di Taba (1995) si era stabilito che Israele avrebbe trasferito (insieme al controllo del territorio), anche «la protezione e preservazione dei siti archeologici, la gestione, supervisione, concessione di licenze e tutte le altre attività archeologiche» all’amministrazione civile palestinese. Ma l’accordo definitivo è sospeso, il che significa che Israele controlla ancora il 70 per cento della Cisgiordania, oltre a Gerusalemme Est. «A parte il controllo israeliano su gran parte della Cisgiordania, decine di siti storici e archeologici – spiega il professor Hamdan – sono inclusi nelle aree gestite dalle colonie ebraiche. In tre casi limite, che sono Sebastia (l’antica Samaria), l’Herodion (a sud di Betlemme con il palazzo fortezza di Erode il Grande) e Qumran (con le grotte in cui sono stati rinvenuti i rotoli del Mar Morto), i siti, pur trovandosi in piena Cisgiordania, sono gestiti direttamente dall’Agenzia israeliana per la protezione della natura e dei parchi nazionali».
C’è poi la questione del fortissimo depauperamento del patrimonio culturale, quando non di un vero e proprio trafugamento: «C’è stato un peggioramento nella situazione degli scavi clandestini – spiega Hamdan – . Precipitando la situazione economica, sono tornati in auge i tombaroli che trafugano e vendono reperti anche molto preziosi». Il tutto senza che gli israeliani si scaldino un granché. Soprattutto nella zona C, quella sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano, la situazione è particolarmente grave.
Uno degli scogli principali da superare per una seria tutela dei beni culturali palestinesi è il varo di una legge che ne permetta realmente la protezione. «Oggi il quadro legislativo è ancora quello del tempio del mandato britannico – spiega lo studioso -. Se la polizia palestinese trova qualcuno che scava, al massimo può fare una multa economicamente irrisoria. La legge è talmente vecchia e inadeguata che conviene correre il rischio di essere presi. Tanto non si rischia molto».
Quale può essere la soluzione a una situazione che appare disperata? Il professor Hamdan, che insieme al team di archeologi e studiosi guidato da padre Piccirillo ha partecipato ad alcuni importanti campagne di recupero, sottolinea la necessità di una vera politica per i beni culturali in Palestina, con la creazione di percorsi formativi specifici, che necessitano però del sostegno della comunità internazionale e dei governi più sensibili alla tutela del patrimonio artistico e culturale della Terra Santa.
Ma la vera risposta al rischio che interi siti archeologici spariscano nel nulla, che monumenti millenari vengano inghiottiti dall’incuria dell’uomo e dall’inclemenza del tempo, è una reale soluzione al conflitto in corso tra israeliani e palestinesi. Solo una situazione pacificata potrà permettere di mettere mano alla salvaguardia di un patrimonio che riguarda la storia di tutta l’umanità.