Come spesso accade, anche quest'anno la Pasqua cristiana si intreccia con Pesach, la Pasqua ebraica. La festa che ricorda la liberazione dall'Egitto per il mondo ebraico è iniziata la sera dell'8 aprile con il séder - la cena rituale in cui si recita l'Haggadah - e andrà avanti per otto giorni. Un'ottima occasione per riscoprire le nostre radici comuni. A partire anche dai giornali israeliani, dove come è ovvio in queste ore si parla molto di Pesach.
Come spesso accade, anche quest’anno la Pasqua cristiana si intreccia con Pesach, la Pasqua ebraica. La festa che ricorda la liberazione dall’Egitto per il mondo ebraico è iniziata la sera dell’8 aprile con il séder – la cena rituale in cui si recita l’Haggadah – e andrà avanti per otto giorni. Un’ottima occasione per riscoprire le nostre radici comuni. A partire anche dai giornali israeliani, dove come è ovvio in queste ore si parla molto di Pesach.
Sul sito del Jerusalem Post l’articolo più cliccato è l’editoriale in cui il quotidiano moderato attacca l’ultima trovata degli ultra-ortodossi. Uno dei riti che scandiscono Pesach è quello dell’azzima, il pane non lievitato di cui parla il racconto dell’Esodo. Nelle famiglie osservanti è previsto che tutto ciò che è lievitato (l’hametz) sia distrutto prima di Pesach e non sia consumato per tutti gli otto giorni. Su questa vicenda però quest’anno è scoppiato l’ennesimo caso, perché i «religiosi» a Gerusalemme hanno minacciato di compiere raid nei negozi che dovessero vendere qualcosa di hametz. E per garantire che il divieto fosse rispettato hanno chiesto ai supermercati di disabilitare i codici a barre dei prodotti hametz. Il problema è che – in un Paese dove non tutti comunque sono ebrei – la legge ovviamente non vieta nei giorni della Pasqua il commercio di prodotti lievitati: con un compromesso molto israeliano dice che i negozi non possono esporre l’hametz, ma possono comunque venderlo. Di qui l’invito del Jerusalem Post ai religiosi: occupatevi piuttosto di altre cose che profanano davvero il volto autentico dell’ebraismo: i supermercati che sfruttano i loro dipendenti (arabi o ebrei che siano); i problemi dei 300 mila immigrati giunti in Israele grazie alla Legge del Ritorno ma che non sono riconosciuti come ebrei; «isolare quelli che dissacrano il nome di Dio mancando di rispetto ai leader delle altre religioni e accogliere invece con rispetto Benedetto XVI al Muro Occidentale». Interessante la conclusione: quest’anno Pesach è stata preceduta dalla benedizione del sole, un rito che nell’ebraismo si ripete una volta ogni 28 anni. L’auspicio del Jerusalem Post è che serva a ricordare come la religione sia prima di tutto una via per illuminare il cuore.
Su Haaretz invece è molto bella la poesia che Bradley Burston propone nel suo blog. È un séder immaginario in cui, dalla porta da cui dovrebbe entrare Elia alla fine invece entra il faraone piegato dalla tragedia per la morte del proprio primogenito. È una meditazione interessante sul rapporto tra la propria liberazione e il dramma dell’altro. Un elemento non nuovo della tradizione ebraica, che negli otto giorni della festa prevede anche la memoria del dolore degli egiziani. Ed è una perla di saggezza che Burston propone oggi con uno sguardo evidentemente rivolto anche all’attualità.
Infine una voce dagli Stati Uniti, l’altro polmone dove alcuni milioni di ebrei stanno celebrando in queste ore Pesach. È il racconto di come anche questa celebrazione possa diventare un momento di incontro anche con tradizioni religiose apparentemente distanti. Lo descrive molto bene sul sito di Common Ground il musulmano Zeba Khan, raccontando che cosa abbia voluto dire per lui, americano di famiglia islamica, crescere in una scuola ebraica. «So bene che la mia fedeltà di adulto all’islam – scrive – ha le sue radici nei miei amici ebrei che fin dagli anni giovanili hanno condiviso con me la gioia e la pienezza della loro fede. Questo loro impegno mi ha ispirato e aiutato a esplorare e apprezzare la mia fede». Anche questo oggi è celebrare Pesach.
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