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Alla ricerca dell’Eden

Carlo Giorgi
6 aprile 2009
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Alla ricerca dell’Eden
Bambini delle periferie del Cairo. (foto A. Raimondo)

Un grande numero di profughi entra ogni giorno in Israele. Gente che viene da Paesi in guerra o piegati dalla carestia dell'Africa nera. Molti sognano l'Europa o l'America.


Neanche la guerra di Gaza, a gennaio, li ha fermati: da quasi due anni, ogni notte, il confine tra Egitto ed Israele viene attraversato in modo illegale da decine di immigrati africani, in fuga. Se ne parla poco. Ma secondo l’Authority sull’immigrazione israeliana, si tratta di un flusso compreso tra i 400 e i 600 immigrati al mese. Una marea di profughi che ha ormai raggiunto le 20 mila unità. Un numero enorme se si pensa che gli immigrati di origine ebraica tornati in Israele nel 2007 per stabilirvisi definitivamente, sono stati poco più di 18 mila. I nuovi immigrati africani fuggono dalla violenza dei loro Paesi. E mettono lo Stato d’Israele – forse per la prima volta nella sua storia – di fronte a una situazione inedita: essere scelto come terra d’elezione da una folla di perseguitati «non ebrei».

Il fenomeno è eclatante anche per un altro motivo. Passare illegalmente il confine con l’Egitto è un rischio mortale: nel 2008, secondo le autorità del Cairo, 24 africani sono stati uccisi dalla polizia di frontiera egiziana durante il tentativo di attraversare il deserto del Sinai. Ma si immagina che le vittime siano di più, considerando i cosiddetti «sudanesi anonimi», ovvero i morti sulla linea di confine tumulati dall’esercito israeliano ad Hatsor, kibbutz situato vicino alla frontiera (vedi foto a p. 19), come denuncia il Refugees Right Forum, network delle associazioni di Gerusalemme che aiutano gli immigrati.

«Gli africani che arrivano da Sudan e Africa Orientale non sono né rifugiati, né semplici immigrati – spiega Michael Bavly dell’Ufficio israeliano per i rifugiati -. Si tratta di richiedenti asilo. Il loro flusso ha iniziato a crescere nel 2006; il picco massimo è stato a gennaio 2008, con ben 1.700 arrivi. Oggi, in un mese solo, arrivano i richiedenti asilo che tre anni fa arrivavano in sei». Secondo l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, nel 2008 in Israele sono entrati 7.500 richiedenti asilo, il 30 per cento in più rispetto all’anno precedente: di questi, oltre 3 mila sono eritrei, 2.100 sudanesi e 400 etiopi; più di mille invece arrivano dalla lontanissima Africa Occidentale (Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana): gente che preferisce il confine del Sinai alla traversata del Mediterraneo, che li porterebbe dritti  in Italia, a Lampedusa.

«A Tel Aviv sono stato a casa di alcuni di loro, appena arrivati dall’Eritrea  – racconta padre Arturo Vasaturo della Custodia  di Terra Santa -, un seminterrato nei pressi della stazione. Una fune attraversava tutta la stanza, appesi i vestiti ad asciugare. Fuggono dalla miseria e da un regime militare in cui giovani devono servire l’esercito per lunghissimi anni. Esperienza da cui escono distrutti psicologicamente e fisicamente. Lasciano l’Eritrea come in un esodo: la prima tappa è il Sudan, che costa loro il pagamento di 700 dollari – continua il francescano -.  Sborsato il denaro, non ricevono altro che l’indicazione del cammino da seguire. Camminano a piedi; ai più fortunati può capitare di percorrere dei tratti di viaggio ammassati come bestie su un furgone. Camminano di notte. Di giorno riposano nascosti, per paura di cattivi incontri e per sfuggire ai controlli. Il secondo pagamento viene fatto in Egitto. Altri 700 dollari, per una traversata difficile e penosa. I controlli sono tanti. Quelli che vogliono rischiare di più e hanno possibilità economiche più elevate, si dirigono a ovest, verso la Libia, per imbarcarsi per l’Europa. Per gli altri c’è il Sinai, da attraversare in pieno deserto. La paura è enorme. Ma la disperazione, la volontà di salvezza, l’istinto di sopravvivenza fanno scattare in alcuni la molla che permette di arrampicarsi sulla rete e saltare nella zona israeliana. Alcune donne hanno fatto questo, stanche, con le ultime forze, con un bambino attaccato al collo».

Passato il confine, a centinaia vivono in tendopoli o in ripari d’emergenza nella periferie delle grandi città. Chi può, cerca un lavoro nelle località turistiche di Eilat, sul Mar Rosso. Gli altri si accontentano di occupazioni più umili. All’inizio del 2008 il governo di Israele ha concesso a 500 richiedenti un permesso di soggiorno temporaneo per lavoro. A 2 mila eritrei, che avevano ricevuto un premesso di lavoro di alcuni mesi, da agosto viene rinnovato un permesso della validità di un solo mese. Ma migliaia di altri vivono senza i documenti per muoversi e lavorare liberamente: «Siamo sudanesi del sud, per la maggior parte cristiani – recita una lettera spedita nel giugno scorso da un comitato di richiedenti al  premier Ehud Olmert – siamo perseguitati da un regime fondamentalista islamico, nemico di Israele; in definitiva, siamo vostri alleati. Quando il pericolo di genocidio sarà passato torneremo a casa, ma per adesso abbiamo bisogno dello status di rifugiati».

In Israele, molti aiutano questi nuovi immigrati africani: a Tel Aviv, Fugee Fridays, giovane associazione di volontariato, fa ogni settimana una distribuzione di cibo: «Abbiamo iniziato lo scorso febbraio – racconta Jesse Fox, animatore dei Fugee Fridays – scoprendo che nel Levinsky Park, di fronte alla stazione degli autobus, era sorto un campo profughi d’emergenza. Così ogni venerdì andiamo ai banchi alimentari del Carmel Market, e chiediamo le cassette di frutta e verdura in eccedenza. Carichiamo le automobili e le portiamo nei rifugi».

Oltre al cibo, i richiedenti hanno bisogno di aiuto legale. Nell’agosto del 2008 l’esercito israeliano ha rimandato in Egitto 91 richiedenti asilo africani, secondo le organizzazioni per i diritti umani senza considerare con sufficiente attenzione i possibili rischi. A novembre, secondo un’organizzazione per i diritti umani in Darfur, l’Egitto ha rimandato in Sudan 23 profughi del Darfur, arrestati ad Al Arish, vicino al Sinai, dopo averli torturati. E di nuovo, a gennaio, l’Egitto ha rimandato in Eritrea 32 profughi, nonostante il rischio di torture. Si tratta di episodi di «espulsione» non legati tra loro da un rapporto di causa-effetto. Ma il timore degli organismi umanitari per la protezione dei richiedenti cresce. «Il parlamento israeliano presto discuterà una legge che prevede sette anni e mezzo di carcere per l’immigrazione clandestina  da un Paese considerato “nemico”, come il Sudan (vedi box) – spiega Sigal Rozen, coordinatrice del Forum per i diritti dei rifugiati – .  Ma posso assicurare che la maggior parte dei migranti preferisce il carcere israeliano all’essere rimandato in Egitto. Per loro il rimpatrio forzato può significare la morte».

«Non ci sono statistiche aggiornate sul numero di rifugiati sudanesi in Egitto – racconta Fiona Elassiuty, dell’ufficio cairota dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni – . Si immagina però che siano tra i 25 mila e i 70 mila. Ma il nostro è anche un Paese di passaggio per somali, eritrei ed etiopi verso Israele».

«Dal 2006 i sudanesi non arrivano più in massa – racconta padre Simon Mbuthia Mwara, comboniano della parrocchia del Sacro Cuore del Cairo – . Ad arrivare sono invece gli eritrei. Spesso sono arrestati al confine con imputazione di ingresso illegale. Il processo viene celebrato in arabo, senza traduttore. Nel giugno 2008 circa 800 sono stati rimpatriati in Eritrea e sono scomparsi; ai parenti che chiedono informazioni le autorità dicono che nessuno li può visitare. La situazione in Eritrea continua a peggiorare. E il flusso di eritrei verso l’Egitto non sta diminuendo».

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