Ancora una volta è finita male: il soldato Gilad Shalit - a ormai quasi tre anni dal suo rapimento - resta nelle mani di Hamas a Gaza. E nelle carceri israeliane continuano a essere detenuti 10 mila palestinesi. I negoziati last minute del governo Olmert sono falliti. Ed è difficile immaginare che Shalit possa riportarlo a casa la diplomazia di Avigdor Lieberman. Questa dei prigionieri è una tragedia che qui in Italia continuiamo a guardare troppo dall'esterno. Proviamo allora a lasciarci aiutare da due voci «informali» per capire come la viva davvero la gente a Gerusalemme e a Ramallah.
Ancora una volta è finita male: il soldato Gilad Shalit – a ormai quasi tre anni dal suo rapimento – resta nelle mani di Hamas a Gaza. E nelle carceri israeliane continuano a essere detenuti 10 mila palestinesi. I negoziati last minute del governo Olmert sono falliti. Ed è difficile immaginare che Shalit possa riportarlo a casa la diplomazia di Avigdor Lieberman. Questa dei prigionieri è una tragedia che qui in Italia continuiamo a guardare troppo dall’esterno. Proviamo allora a lasciarci aiutare da due voci «informali» per capire come la viva davvero la gente a Gerusalemme e a Ramallah.
Partiamo però da una premessa: che – nonostante i proclami ottimistici – questa trattativa non stesse andando per il verso giusto, lo si è capito quando il governo israeliano ha reso noti i nomi di alcuni dei prigionieri di Hamas su cui si stava discutendo e le stragi loro attribuite. Un governo che pensa di portare fino in fondo una trattativa così delicata non dà notizie del genere. La verità è che Olmert – nel momento in cui ha stabilito che il prezzo richiesto da Hamas era troppo alto – ha addotato la tattica del «muoia Sansone con tutti i filistei». Una tattica che il movimento islamista palestinese conosce alla perfezione, perché è la stessa che da tre anni ormai utilizza. Ancora una volta Hamas ha mostrato tutta la sua incapacità politica: con una comunità internazionale che strorce il naso di fronte al governo Netanyahu che sta per insediarsi a Gerusalemme, gli islamisti potevano accreditarsi rilasciando Shalit. Portando, per di più, a casa centiniaia di detenuti palestinesi. Avrebbero solo dovuto rinunciare a far rientrare nei Territori i propri uomini di spicco, accettando per loro un esilio all’estero. Solo chi corre allegramente verso il precipizio si comporta così.
Ma questi sono i ragionamenti politici, appunto. Che dicono ancora troppo poco. E allora vale la pena questa volta di rilanciare le riflessioni di Carl, il titolare del blog Israel Matzav. Carl è un avvocato nato negli Stati Uniti, un ultra-ortodosso, in Israele dal 1991. La sua riflessione comincia non a caso facendo riferimento ai propri due figli, di nove e sette anni: questo è lo sguardo con cui ogni israeliano guarda alla vicenda del soldato di leva Gilad Shalit. E proprio a partire da questo sguardo Carl dice chiaramente che l’idea di inasprire come ritorsione le pene per i detenuti di Hamas – avanzata dal governo nella sua ultima seduta – è in realtà la solita frase ad effetto per l’opinione pubblica. «La nostra Corte Suprema di sinistra – dice l’avvocato ultra-ortodosso – non lo permetterà mai». Credo che sia chiaro a tutti che Carl non è un seguace di Peace Now. Però – sulla vicenda Shalit – pone una domanda interessante: non è che il problema sta nel mediatore? Non sarebbe meglio che a condurre la trattativa non fosse l’Egitto ma i servizi segreti di un Paese Occidentale, come è successo l’anno scorso con Hezbollah?
Il tema della tragedia umana di chi è strappato ai propri cari lo pone anche – sul versante opposto – Jonhatan Baker del sito palestinese Miftah. Che dice: noi sappiamo tutto della famiglia e dell’infanzia di Shalit, ma che cosa sappiamo delle storie dei 10 mila detenuti palestinesi? Così cita un esempio, parlando della storia quotidiana di Fatimeh, la moglie di un palestinese da otto anni in carcere perché accusato di concorso in un attentato suicida. So già l’obiezione di tanti: ma questo è un terrorista, non un soldato dell’esercito israeliano. La condivido in pieno: le due situazioni non possono essere messe sullo stesso piano. Però dobbiamo anche ricordare che non stiamo parlando di 100, ma di 10 mila persone. E non tutti hanno avuto le stesse responsabilità in quegli attentati. Quello che voglio dire è che anche la situazione dei prigionieri palestinesi è un po’ più complessa rispetto allo stereotipo dei terroristi assetati di sangue.
Questo dei prigionieri è l’aspetto del conflitto dal quale la politica internazionale si tiene più alla larga. Perché è il più viscido, quello che ti chiede di fare i conti davvero con le ferite di questo conflitto. Ma è quello su cui oggi dovremmo tutti fare di più. Non sono così convinto sul fatto che non si debba trattare con Hamas se prima il movimento islamista non riconosce la legittimità dello Stato di Israele. Questo è un ambito fatto di parole e sulle parole si può sempre discutere. Di una cosa, però, sono convinto: la prima trattativa con Hamas deve essere quella sulla liberazione di Gilad Shalit. Senza di quella tutto il resto sarebbe inutile.
Clicca qui per leggere il post dedicato alla vicenda Shalit sul blog Israel Matzav
Clicca qui per leggere l’articolo di Miftah