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8 marzo in Medio Oriente

05/03/2009  |  Milano
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Si avvicina l'8 marzo e non fa mai male ricordare quanto la condizione della donna sia una delle questioni chiave per dare un futuro al Medio Oriente. Altrimenti si rischia di giocare tutti a Risiko: inventare piani di pace e castelli di carte su cui il tutto dovrebbe reggersi; perdendo, però, di vista come sia nelle società il terreno dove bisogna provare a costruire qualcosa di diverso. Tre articoli usciti in questi giorni ci dicono come in Medio Oriente oggi siano sempre di più le donne che alzano la voce per far valere i propri diritti. E gli effetti cominciano a vedersi.


Si avvicina l’8 marzo e non fa mai male ricordare quanto la condizione della donna sia una delle questioni chiave per dare un futuro al Medio Oriente. Altrimenti si rischia di giocare tutti a Risiko: inventare piani di pace e castelli di carte su cui il tutto dovrebbe reggersi; perdendo, però, di vista come sia nelle società il terreno dove bisogna provare a costruire qualcosa di diverso. Tre articoli usciti in questi giorni ci dicono come in Medio Oriente oggi siano sempre di più le donne che alzano la voce per far valere i propri diritti. E gli effetti cominciano a vedersi.

Un segno molto interessante, ad esempio, è il fatto che il quotidiano di Amman The Jordan Times abbia dedicato un editoriale alla questione dei «crimini d’onore». L’antefatto è che le violazioni dei diritti delle donne figurano in cima ai rilievi che il Consiglio dell’Onu per i diritti umani ha consegnato nel suo rapporto sulla Giordania. In particolare viene denunciata la pratica della giurisprudenza giordana di infliggere pene molto lievi agli uomini che uccidono donne accusate di adulterio per il semplice fatto che le famiglie stesse delle vittime spesso ritirano l’accusa. «Finché la Giordania – scrive The Jordan Times – non affronterà la questione e non cambierà il suo diritto penale, la comunità internazionale continuerà a considerare il nostro Paese come complice di fatto di questi delitti. Dobbiamo smettere di chiudere un occhio di fronte all’ingiustizia commessa con i crimini d’onore e i tribunali devono smettere di dimostrarsi comprensivi dalla parte sbagliata. Questo chiama in causa la volontà politica ai più alti livelli per un’azione che permetta di salvare la vita di altri esseri umani sfortunati».

Decisamente meno drammatico – anzi, a tratti addirittura spassoso – è invece l’articolo del quotidiano saudita Arab News. Che se la prende con una delle tante assurdità della legislazione saudita dettata dai rigidissimi custodi della morale. Dunque: le norme impongono la segregazione tra uomini e donne sui luoghi di lavoro. Ma nei centri commerciali sauditi tutto questo ha un esito paradossale: le donne non possono lavorare come commesse nemmeno nei negozi di biancheria intima femminile. Con il risultato che le velate acquirenti si trovano davanti a uomini a cui dovrebbero chiedere consigli su forma e taglia del proprio reggiseno. Sembrerebbe la trama di un film con Alvaro Vitali, invece è la realtà dell’Arabia Saudita di oggi. Un controsenso che la dice lunga su quali siano le reali preoccupazioni della «Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio». Ma, anche qui, di queste assurdità finalmente si comincia a parlare. Così un agguerrito gruppo di donne saudite si è riunito su Facebook e ha fatto partire una campagna per l’assunzione di commesse nei negozi di biancheria intima. Può sembrare una cosa da poco, ma cruciale è l’idea che sta dietro: la denuncia di una società che fino a qualche anno fa presupponeva che le donne stessero a casa. Oggi non è più così neanche a Riyad. E le contraddizioni vengono al pettine. Tutto lavoro per Norah al-Faiz, la prima donna nominata vice-ministro nel governo dell’Arabia Saudita qualche settimana fa.

Donne e Medio Oriente non vuol dire, però, solo islam. Anche nella società israeliana – pur a un livello evidentemente diverso – restano infatti contraddizioni tuttora da risolvere. Perché è vero che Israele è un Paese che ha una donna come presidente della Corte Suprema e due donne sono il presidente della Knesset e il ministro degli Esteri uscenti. Però i rapporti non certamente da Stato laico esistenti con il rabbinato creano ugualmente una serie di situazioni inaccettabili. E – come racconta un articolo del Jerusalem Post – ci sono donne che guardano con preoccupazione al diritto di veto che i partiti religiosi avranno nel governo che Netanyahu sta cercando di formare. Tuttora, infatti, il matrimonio in Israele è regolato solo dal rabbinato: non esiste un matrimonio civile. Questo significa che l’unica separazione possibile è l’atto di ripudio che secondo la Torah è l’uomo a consegnare alla donna. Il problema è che in Israele ci sono uomini che lasciano le proprie mogli senza però «concederle» il ripudio. È il caso delle cosiddette agunot, le donne incatenate. Una condizione che comporta problemi pratici anche gravi. Il Jerusalem Post spiega che proprio sulla questione della giurisdizione rabbinica sui matrimoni è in atto un braccio di ferro nella futura compagine di governo. Perché i partiti religiosi stanno già facendo blocco contro Yisrael Beitenu che invece si è schierato per l’introduzione di una forma di matrimonio civile. Per questo motivo due organizzazioni femminili ebraiche (Mavoi Satum e Kolech) hanno rivolto un appello a Netanyahu. Chiedono che il nuovo governo si faccia carico del problema delle agunot e dia un  segno ben preciso, nominando anche delle donne all’interno del comitato (tuttora formato da soli uomini) che nomina i componenti dei tribunali rabbinici. Guardare al Medio Oriente per quello che davvero è significa ricordarsi anche di questa battaglia.

Clicca qui per leggere l’articolo di The Jordan Times

Clicca qui per leggere l’articolo di Arab News

Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post

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