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Lo sport non fa la pace

19/02/2009  |  Milano
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Il visto d'ingresso non rilasciato alla tennista israeliana Shahar Peer in occasione di un torneo internazionale a Dubai, ha provocato i soliti commenti indignati di chi - all'improvviso - scopre che il mondo dello sport in Medio Oriente non è una «zona franca» rispetto ai conflitti. Ma le cose potrebbero davvero andare diversamente? Intanto sgomberiamo il campo da un equivoco: l'idea che lo sport sia una specie di «magia», sempre e comunque in grado di affratellare tra loro i popoli. Questa è solo una bella immagine per le riviste patinate. Notizie e riflessioni dalla stampa mediorientale.


Il visto d’ingresso non rilasciato alla tennista israeliana Shahar Peer in occasione di un torneo internazionale a Dubai, ha provocato i soliti commenti indignati di chi – all’improvviso – scopre che il mondo dello sport in Medio Oriente non è una «zona franca» rispetto ai conflitti. Ma le cose potrebbero davvero andare diversamente?

Intanto sgomberiamo il campo da un equivoco: l’idea che lo sport sia una specie di «magia», sempre e comunque in grado di affratellare tra loro i popoli. Questa è una bella immagine per le riviste patinate, che non mancano mai di propinarci le «partite del cuore». Ma basta mettere piede in qualsiasi stadio italiano per capire quanto questa immagine sia lontana dalla realtà. Se poi entriamo nel dettaglio dello sport in Medio Oriente scopriamo che le uniche novità di questa vicenda sono due: 1) il fatto che – grazie al montepremi e a tutto quello che oggi gira intorno alla nuova metropoli degli Emirati Arabi – il torneo di tennis di Dubai è diventato un appuntamento interessante; 2) il fatto che Shahar Peer ha guadagnato posizioni nelle classifiche internazionali e dunque si pone il problema se farla partecipare oppure no. Il boicottaggio degli atleti israeliani è purtroppo una costante nel mondo dello sport. Tanto è vero che, negli sport di squadra, i team israeliani sono affiliati alle Federazioni europee: la nazionale di calcio israeliana partecipa ai gironi europei per le qualificazioni mondiali proprio per evitare che si creino questo genere di problemi ogni volta chi i sorteggi dovessero abbinarla a squadre di nazionalità araba.

Questo boicottaggio ovviamente non è un gesto alla De Coubertain. Però, quando lo si condanna, bisognerebbe raccontare anche l’altra faccia della medaglia, che conoscono molto bene gli atleti palestinesi. La racconta l’articolo di Nadia Awad che rilanciamo dal sito palestinese Miftah: anche Israele pratica la disciplina dei visti negati agli sportivi. Ad esempio boicotta la nazionale di calcio palestinese, che pure dal 1998 è riconosciuta dalla Fifa e quindi – in teoria – un giorno potrebbe anche arrivare alla fase finale dei mondiali di calcio. Più in generale: tutti gli atleti palestinesi con qualche ambizione internazionale sanno di dover misurare le parole nelle interviste, perché una dichiarazione fuori posto potrebbe costare loro l’impossibilità a uscire da Gaza o dai Territori. E poi ci sono i 375 sportivi palestinesi morti nel conflitto dal 2000 a oggi. E le strutture sportive devastate nei bombardamenti (mirati o meno che siano).

È facile pontificare sullo sport che dovrebbe unire i popoli standosene seduti comodi davanti al televisore acceso su SkySport. Le guerre non conoscono «zone franche». Ed è logico che sia così. Perché mai un conflitto che – da una parte come dall’altra – ha mostrato di non avere alcuna pietà nemmeno per i bambini, d’incanto dovrebbe fermarsi e fare finta di niente davanti a una rete da tennis o a un pallone? Durante le due guerre mondiali del Novecento non è andata così: si è fermato lo sport, non i combattimenti.

Vuol dire che lo sport non può fare assolutamente niente per risolvere il conflitto in Medio Oriente? Fortunatamente no. Ci sono esperienze importanti di costruzione della pace anche in questo campo. Però bisogna avere il coraggio di dire che non sono tutte uguali. Una delle più serie – ad esempio – è quella portata avanti dal Peres Center for Peace, il centro finanziato da Shimon Peres con i soldi del Premio Nobel per la pace. Importante perché punta sullo sport di base: creando gemellaggi tra squadre giovanili israeliane e palestinesi, ma puntando soprattutto sulla cultura dello sport. È solo così che si può risolvere davvero alla radice il problema dei «boicottaggi». Perché lo sport a quel punto non è più la «zona franca», ma l’occasione per aiutare dei giovani a incontrarsi davvero. E per provare a capirsi a vicenda.

Sempre a proposito di cultura sportiva segnaliamo infine un articolo interessante di Al Ahram Weekly: segnala il fatto che anche al Cairo sono arrivati gli ultras. Copiando gli stili delle nostre tifoserie cominciano ad andare in curva con i bandieroni e a proporre i loro cori. In un Paese come l’Egitto di Mubarak – dove non si muove foglia che la polizia non voglia – fa un certo effetto. Speriamo di non trovarci presto a leggere qualche altra lacrima di coccodrillo sullo sport che dovrebbe unire i popoli e invece in Medio Oriente diventa occasione per alimentare i conflitti.

Clicca qui per leggere l’articolo di Miftah

Clicca qui per conoscere i progetti sportivi del Peres Center for Peace

Clicca qui per leggere l’articolo di Al Ahram Weekly

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