Il libro Le mie ultime parole, curato da Zwi Bacharach, è conforme alla cultura della memoria dell'Olocausto alimentata dal popolo di Israele negli ultimi decenni. È la raccolta di 118 testimonianze che hanno un punto in comune: sono scritti di persone con una vita ordinaria gettate di colpo nell'orrore della Shoah. È la particolarità di questo libro: può segnare un punto di non ritorno per la coscienza di chi vi si imbatte, è capace di impressionare almeno quanto le immagini stesse dell'Olocausto. Perché chi scrive è simile a chi legge. Perché chi legge «vede» con gli occhi di chi subisce.
«Reuven Atlas, sappi che tua moglie Gina e tuo figlio Imus sono stati uccisi. Nostro figlio piangeva amaramente. Non voleva morire. Vai in guerra e vendica tua moglie e il tuo unico figlio. Ci portano a morte e siamo innocenti». Sono parole di un’iscrizione trovata, tra altre simili, nella sinagoga di Kowel in Volinia, dove nel 1942 vennero rinchiusi e trucidati (a eccezione di una donna impazzita) tutti gli ebrei della città. Hanna Arendt ha introdotto un concetto attuale ai nostri giorni e indispensabile per capire le maggiori tragedie del Ventesimo secolo: la relazione diretta tra la radicalità del male (capitalizzata dalla follia nazista) e l’incapacità di immedesimazione (da parte del carnefice, ma si potrebbe dire dell’osservatore esterno) con la tragedia altrui. Rispetto a questo, Le mie ultime parole, a cura di Zwi Bacharach, è un’opera in esatta controtendenza, conforme alla cultura della memoria impostata e perseguita dal popolo di Israele negli ultimi decenni.
Si tratta della raccolta di centodiciotto testimonianze che hanno un punto in comune con quella citata: sono scritti di persone con una vita ordinaria, parenti, amici, conoscenze, non diversamente da qualsiasi potenziale lettore odierno, gettati di colpo nell’orrore della Shoah. È la particolarità di questo libro: può segnare un punto di non ritorno per la coscienza di chi vi si imbatte, è capace di impressionare almeno quanto le immagini stesse dell’Olocausto. Perché chi scrive è simile a chi legge. Perché chi legge «vede» con gli occhi di chi subisce. Il rabbino, la madre di famiglia, l’operaio, il professionista, il contadino, il bambino di pochi anni vedono se stessi e i propri compagni di sventura strappati di colpo dalla normalità e quasi immediatamente devono affrontare il massacro, la fine del loro mondo.
Chi racconta non può credere a quello che vede. La deportazione e il campo di concentramento rappresentano solo una delle modalità di strage da parte degli occupanti; chi scrive sa che chi leggerà non capirà quello che è successo nei ghetti rastrellati, nelle foreste delle fucilazioni di massa, nei treni piombati, nei volti di intere popolazioni, soprattutto nell’Europa dell’Est, diventate di colpo irriducibilmente ostili. Individui o intere famiglie cercano di raccogliere i sentimenti migliori per rassicurare i figli o i parenti che per qualche vicenda sono sfuggiti al massacro; talvolta ci si affida a Dio, talvolta lo si rinnega; si danno disposizioni per le proprietà rimaste, ci si ricorda delle poche mani tese ad aiutare i perseguitati. In certi casi chi è destinato a morire a breve esprime ancora speranza, in altri chi è riuscito a evitare la morte (dandosi alla macchia, pagando con la totalità degli averi i propri nascondigli) dichiara di arrendersi alla stanchezza.
La raccolta di Zwi Bacharach non è organizzata in ordine cronologico, né geografico (l’ampio arco delle testimonianze va dalla Francia fino alle attuali repubbliche baltiche); è un assurdo zibaldone del dolore, dove le lingue usate, le forme e i contenuti riflettono una terribile varietà. Ci sono lettere, biglietti gettati dai treni diretti ai campi, iscrizioni, testamenti. Fatto notevole, in un certo numero di casi si affidano memorie scritte a persone di fiducia, con il fine dichiarato di difendere dall’oblio ciò che è avvenuto, ad uso delle generazioni postume. È la vocazione del popolo di Israele di raccontare la propria storia, di condividerla con gli altri uomini. È l’estrema resistenza alla banalità del male.