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A Jaffa sono arrivati gli eritrei

04/02/2009  |  Tel Aviv
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A Jaffa sono arrivati gli eritrei
Profughi eritrei a Tel Aviv.

Dopo i sudanesi, ora a Tel Aviv è la volta degli eritrei, arrivati nella città costiera israeliana abbandonando il loro lontano Paese. Li ha incontrati un francescano della Custodia, padre Arturo Vasaturo, che ha ascoltato il racconto della loro difficile avventura in fuga dalla miseria e da un duro regime militare che costringe i giovani - ragazzi e ragazze - a servire sotto le armi a tempo indeterminato, senza nessuna logica motivazione. Da questa esperienza io giovani escono distrutti psicologicamente e fisicamente. In molti cercano di sottrarsi cercando di costruirsi una vita altrove. 


Padre Arturo Vasaturo, del convento francescano di Jaffa – alle porte di Tel Aviv, in Israele -, pubblica questa testimonianza sul sito ufficiale della Custodia di Terra Santa. La rilanciamo su Terrasanta.net, offrendola all’attenzione dei nostri lettori.

* * *

Neiat, Hadas, Tredos, Helena, Abraham, sono arrivati recentemente a Tel Aviv. Dopo i sudanesi, è ora la volta degli eritrei, arrivati qui abbandonando il loro lontano Paese. Mi hanno raccontato la loro difficile avventura. Vogliono fuggire dalla miseria, da un duro e difficile regime militare in cui, giovani – ragazzi e ragazze – devono servire l’esercito a tempo indeterminato, senza nessuna logica motivazione, per lunghissimi anni, come accade in tanti Paesi dove c’è la dittatura. Da questa esperienza escono distrutti psicologicamente e fisicamente.

Lasciano l’Eritrea come in un esodo. La prima tappa è il Sudan, che costa loro il pagamento di 700 dollari, denaro che generalmente viene loro procurato da un parente che vive già all’esterno. Sborsato il denaro, non ricevono altro che l’indicazione del cammino da seguire per raggiungere un possibile campo profughi: niente altro. Abbandonati alla sorte, alla fame, sete, caldo e freddo, al pericolo di briganti, all’oltraggio per le giovani donne… 700 dollari è il prezzo di un’informazione. Camminano a piedi; ai più fortunati può capitare di percorrere dei tratti di viaggio ammassati come bestie su un furgone. Proprio come bestie – raccontano – senza nessuna possibilità di movimento, neppure di stendere o spostare le gambe o le braccia. Un viaggio lungo, si cammina generalmente nelle ore notturne. Di giorno riposano nascosti, per paura di cattivi incontri e per sfuggire ai controlli. Un modo antico di andare, sempre uguale, che fa parte del camminare nel deserto, dove la lunghezza del viaggio viene calcolata dal numero delle notti necessarie per effettuarlo.

Il secondo pagamento viene fatto in Egitto. Altri 700 dollari, per una traversata difficile e penosa. I controlli sono tanti. Quelli che vogliono rischiare di più e hanno possibilità economiche più elevate, si dirigono a ovest, verso la Libia dalle cui spiagge sperano di imbarcarsi per l’Europa su quelle carrette del mare che vediamo ormai abitualmente alla televisione. I prezzi per quest’ultimo, rischiosissimo pezzo di viaggio, sono altissimi.

Per gli altri c’è la penisola del Sinai, da attraversare in pieno deserto. Per sopravvivere mangiano qualche biscotto; bevono acqua «corretta» con benzina, per usarne il minimo necessario. La frontiera con Israele è la più pericolosa. I soldati egiziani sparano a vista a chi tenta di avvicinarsi all’alta rete metallica sormontata dal filo spinato. Per molti, troppi di loro, il viaggio finisce qui, a morire uccisi da un colpo di fucile. La paura è enorme. Ma la disperazione, la volontà di salvezza, l’istinto di sopravvivenza fanno scattare in alcuni la molla che permette di arrampicarsi sulla rete e saltare nella zona israeliana. Alcune donne hanno fatto questo, stanche, con le ultime forze, con un bambino attaccato al collo. Hanno raggiunto la terra promessa e sono stati accolti come rifugiati politici.

Restano in Israele con documenti che vengono rinnovati ogni due-tre mesi, tanto dura il permesso di residenza temporanea.

Quelli di loro che io ho conosciuto sono tutti cristiani. Dopo aver trascorso qualche tempo in ospedale per riprendersi, hanno iniziato a lavorare nell’unica occupazione che viene loro offerta: la pulizia di appartamenti e locali pubblici. Non sanno cosa riserva loro il futuro, non hanno molte prospettive. Nonostante questo ringraziano il Signore e confidano in lui. Non possono tornare indietro. Qui – dicono – c’è lavoro, e cibo, tanta frutta. Lavorando possono inviare un po’ di denaro alle loro famiglie che sopravvivono in stato di estremo bisogno.

Ho avuto occasione di visitare alcuni di loro. Sono stato nel loro appartamento, in un seminterrato nei pressi della stazione centrale di Tel Aviv, una zona che è diventata un quartiere popolare riservato ai lavoratori stranieri. Hanno voluto che assaggiassi il loro cibo tradizionale, e mi hanno offerto il caffè seguendo un rito tutto particolare. Mangiano portando il cibo alla bocca con la mano destra, un po’ come tutti i popoli poveri, che rispettano la tradizione della sacralità del cibo, bene da condividere attingendo tutti dallo stesso piatto. A me, con delicatezza, hanno dato un cucchiaio. Una fune attraversava tutto il locale, e vi erano appesi ad asciugare i panni di un neonato e di una piccola bambina. Un segno di vite nuove. In un angolo, in un lettino, dormiva beatamente George, di alcuni mesi, protetto da un’immagine sacra posta sul cuscino. La sua mamma era fuori, a cercare lavoro. George era affidato a una giovane compagna che condivide l’alloggio e la cura del bambino. Anche lei è mamma: ha una bimba di due anni, Diana, e un bimbo, Rubiel, di poche settimane. A casa per accudire il neonato, fa da mamma anche a George. Sono mamme che si aiutano. La forza della vita prende il sopravvento e offre segni di speranza e di gioia.

Una vita dura, la loro, nonostante la quale la serenità non scompare mai dal loro viso. E continuano ad essere fiduciosi nel Signore.

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