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Una guerra paradossale

07/01/2009  |  Milano
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Non c'è guerra più pericolosa di quelle i cui obiettivi non sono militari, ma politici. Se si punta a «ristabilire la deterrenza» e «ridare sicurezza» tutto si gioca sulle percezioni. Alla fine vince chi sa usare meglio la propaganda. Indipendentemente dai morti e dalle bombe. È quanto sta succedendo in questa assurda guerra di Gaza. La più paradossale tra le guerre del Medio Oriente.


Non c’è guerra più pericolosa di quelle i cui obiettivi non sono militari, ma politici. Perché se c’è una città da «conquistare» è facile stabilire quando l’obiettivo è raggiunto. Ma se gli obiettivi sono «ristabilire la deterrenza» e «ridare sicurezza» tutto si gioca sulle percezioni. Alla fine vince chi sa usare meglio la propaganda. Indipendentemente dai morti e dalle bombe. È quanto sta succedendo in questa assurda guerra di Gaza. La più paradossale tra le guerre del Medio Oriente.

Israele ha dichiarato fin dall’inizio obiettivi minimalisti. Nessuna intenzione di rioccupare a tempo indeterminato la Striscia. Poche illusioni anche rispetto a una reale uscita di scena di Hamas. L’obiettivo – dicono – è arrivare a una tregua che sia reale e duratura. Con Hamas indebolita e una qualche forma di controllo rispetto ai tunnel con l’Egitto, da dove entrano le armi nella Striscia. Il terrore più grosso del governo Olmert è quello di rimanere invischiato a Gaza troppo a lungo in piena campagna elettorale. Anche perché – lo stiamo già vedendo – Hamas non combatte faccia a faccia contro un esercito più forte di lui. Preferisce le azioni di guerriglia, che abbiamo visto in Iraq e in Afghanistan quanto male possono fare. Dunque – molto presto – sarà anche interesse di Israele arrivare al cessate il fuoco. Lo spiega bene oggi su Haaretz l’articolo di Aluf Benn che rilanciamo qui sotto: il pericolo più grande oggi per Israele è farsi prendere dall’«euforia dei generali».

L’assurdità di questa situazione, però, è che se la guerra finisse davvero con una soluzione del genere, Hamas sarebbe tutt’altro che sconfitta. Perché ci si può rigirare intorno finché si vuole, dicendo che l’accordo per il cessate il fuoco sarà con l’Egitto e non con i «fondamentalisti islamici». Ma – di fatto – con questa guerra Israele sta facendo con gli F16 e con i carri armati quanto per un anno e mezzo non ha voluto fare con le armi della politica: riconoscere che a Gaza oggi (ma anche domani) governa Hamas. Come dice bene l’editoriale di oggi del quotidiano saudita Arab News, ad Hamas basta sopravvivere per vincere. Certo, alla fine forse ci saranno gli osservatori internazionali a presidiare i tunnel da cui entravano le armi nella Striscia. Ma la contropartita per arrivarci sarà la fine del blocco che per un anno e mezzo ha strangolato Gaza. E questo per i fondamentalisti che governano la Striscia sarà un risultato politico enorme. A quel punto, però, bisognerà anche chiedersi: a che cosa è servito un anno e mezzo di boicottaggio internazionale di Hamas? A perderci, dunque, sarà stata solo la popolazione di Gaza, ancora una volta ostaggio delle follie mediorientali e di una comunità internazionale che – nonostante le parate alla Annapolis – è rimasta troppo a lungo alla finestra. L’altro grande sconfitto sarà Abu Mazen, che oggi si ritrova ulteriormente indebolito e a mandato ormai scaduto.

Per di più Israele dovrà fare i conti con altre scorie pericolose che questo conflitto ha messo in circolazione. Ad esempio questi giorni stanno segnando un’ulteriore frattura nei rapporti con gli arabi israeliani. In Galilea non si erano mai viste manifestazioni così grandi a sostegno dei palestinesi. E quanto questo aspetto faccia problema lo spiega un terzo articolo uscito qualche giorno fa sul Jerusalem Post, in cui si dice che gli ebrei israeliani devono imparare a capire queste proteste senza scandalizzarsi mentre gli arabi israeliani devono imparare a non oltrepassare il segno. Facile a dirsi, più difficile a farsi. La verità è che questa guerra rischia di far crescere ancora di più le polarizzazioni interne, che per Israele non sono meno pericolose dei razzi Qassam e Grad.

Certo, la volontà di non ritornare allo status quo apre almeno qualche opportunità per la comunità internazionale. A patto che ci sia il coraggio di volerle sfruttare. Non bisogna dimenticare che un gruppo di carabinieri italiani al valico di Rafah li mandammo già alla fine del 2005. Ma se li si lascia là da soli, senza un’azione politica di sostegno, si tratta di una presenza inutile. Dunque: è il momento giusto per internazionalizzare la crisi di Gaza. Però con una politica pragmatica, non ideologica. Per questo – a quelli che in Italia si spacciano per amici di Israele dimostrandosi anche più realisti del re – sarebbe il momento di ricordare un paio di cose: 1) oggi è il governo israeliano a volere per Gaza una soluzione simile a quella adottata al confine libanese con Hezbollah (che guarda caso in Libano è un partito politico riconosciuto da tutti gli altri); non è che quanti da due anni ormai vanno dicendo che la missione dell’Unifil è inutile, forse hanno torto? 2) oggi siamo qui a scervellarci per trovare una soluzione in grado di far sì che il confine tra Gaza e l’Egitto sia sorvegliato da una forza internazionale; non è che se nel 2005 Sharon (ormai da tutti considerato l’uomo che voleva la pace), invece di scegliere la strada del ritiro unilaterale da Gaza avesse optato per una formula negoziata e internazionalmente garantita, questa forza sul confine di Rafah oggi ce l’avremmo già da tre anni?

Clicca qui per leggere l’articolo di Haaretz

Clicca qui per leggere l’articolo di Arab News

Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post

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