Libano, piccole vite in bilico
L’hanno chiamata «generazione perduta»: bambini con un passato di guerra, un presente senza istruzione garantita. E un futuro incerto. La definizione – presa in prestito da uno studio dell’organizzazione britannica World Vision, sui minori profughi in tutto il mondo – rischia di adattarsi fin troppo bene alla vita di migliaia di bambini iracheni rifugiati in Libano. Grande povertà. Mancanza di protezione legale. Difficoltà di accesso all’istruzione. E alla maggior parte dei lavori qualificati. Queste sono le condizioni dei circa 40 mila profughi iracheni in Libano. E di conseguenza, dei loro figli.
Akram e la moglie sono arrivati a Beirut l’8 aprile 2007. Partiti da Tel Esqof, nel nord Iraq. Cristiani caldei, più volte hanno subito pressioni e minacce. Hanno lasciato tutto solo dopo che il figlio maggiore è stato picchiato a sangue. E minacciato di morte. Entrati clandestinamente dalla Siria in Libano, con 250 dollari a testa. Akram ha 11 figli, che pian piano si siedono intorno al padre che ci ha accolto in un appartamento ricco di immagini votive ai muri, ma povero di mobili. Siamo nel quartiere di Boushriye, periferia di Beirut.
«Lidia, France e Loranc – elenca il padre -. Loro vanno a scuola. Grazie all’aiuto che riceviamo dalla Chiesa caldea e da Caritas. Hanno sistemato le cose perché potessimo pagare una retta inferiore». Tutti sperano che arrivi il permesso dagli Usa: un visto per San Diego, come rifugiati.
Nel frattempo, ci sarebbero altri 3 figli in età scolare. Dai 14 ai 17 anni. Ma lavorano tutti e tre. Chi come garzone in un supermercato, chi in una stireria. Nessuno dei tre ha ripreso gli studi in Libano. Guadagnano circa 200 dollari al mese. «Spesso sono proprio minorenni e donne a lavorare di più in famiglia – ci spiega Michel Kasdano, coordinatore delle attività di assistenza della Chiesa caldea – perché rispetto agli uomini è meno probabile che vengano fermati dalla polizia». Questo è uno dei motivi per cui molti, a 14 anni, lasciano la scuola. Un altro motivo è la difficoltà d’integrazione nel sistema educativo. L’accettazione dei piccoli profughi nelle scuole del Libano dipende spesso dalla buona volontà dei singoli direttori di istituti. Anche se dal 2008, secondo la portavoce dell’Acnur Laure Chedrawi «il ministero dell’Istruzione libanese ha emesso una circolare che invita le scuole pubbliche a fare il possibile per accettarli». Intolleranza a parte, quasi sempre gli iracheni sono costretti a fare grandi passi indietro prima di andare avanti. Chiediamo alla famiglia di Aziz. Originari di Mosul, in Libano da oltre 3 anni.
Sei figli: quattro che lavorano (anche i minorenni dai 14 ai 17 anni) e gli ultimi due a scuola. Diana, 13 anni. Una ragazzina sveglia che dovrebbe aver superato la metà del ciclo di studi. E invece frequenta l’ottava classe, più o meno come l’ultimo anno di elementari. E il fratello Lauei: 9 anni, in seconda classe. «Diana è brava, ama studiare. Ma il problema è l’inglese», spiega Aziz. L’inglese o il francese… Diversamente dall’Iraq, in Libano certe materie vengono insegnate solo in queste due lingue. E i bambini che non le parlano scivolano indietro. Stesso problema per i figli di Akram: Lidia, 8 anni e mezzo, frequenta l’equivalente della prima elementare. E il tredicenne Lorance: dovrebbe essere nell’ottava. Si ritrova in quinta.
Secondo Isabelle Saade Feghali di Caritas Lebanon, che assiste circa 2 mila profughi in maggioranza musulmani, questa della carenza nelle lingue «è una delle prime cause di abbandono scolastico tra adolescenti». La Chiesa caldea, Caritas e altre organizzazioni umanitarie (tra cui il Danish Refugee Council, il Norwegian Refugee Council, l’Institute Européen de Coopération et de Développement), grazie all’Acnur e ad altri fondi, offrono una copertura parziale delle spese per l’istruzione. Ciononostante, il problema rimane. Anche se farne una stima precisa non è facile.
Da una ricerca svolta dal Danish Refugee Council nel 2007, per esempio, è risultato che su 590 famiglie irachene solo il 38 per cento mandava i figli a scuola. Secondo Caritas, invece «ora più della metà del bambini iracheni continua gli studi». Dalla sua esperienza, Michel Kasdano è meno ottimista. Stima che lo scorso anno, non più di un terzo dei minori assistiti dalla Chiesa caldea abbia continuato gli studi fino ai 18 anni.
Il destino di questi ragazzi, in Libano, si riassume in un termine asettico quanto incongruo: «ricollococamento». Le loro famiglie saranno registrate come rifugiati dall’Acnur, per poter emigrare in un altro Paese disponibile a riconoscere il loro status? Se sì, possono sperare di continuare gli studi e avere una vita decente. Se no, rimarranno in questo «limbo» privo di vere opportunità che è il Libano, per loro.
L’Acnur è ottimista. Il numero dei visti come rifugiati è in aumento, secondo la portavoce Laure Chedrawi. «Erano 450 nel 2007. Siamo a 2 mila nel 2008. E speriamo in 2.500 per il 2009».
Si spera e si attende dunque. Ma il problema è che per molti «l’attesa dura troppo a lungo – specifica impietoso Michel Kasdano – spesso le famiglie non si preoccupano se i figli saltano un anno di scuola. Pensano di partire di lì a poco: ma poi passa il primo anno, poi il secondo e poi il terzo. E in quest’attesa, con le speranze della famiglia, si brucia il futuro dei bambini»…