Nella settimana della Memoria della Shoah, la storica Anna Foa consegna ai lettori un saggio di ampio respiro, caratterizzato da giudizi lucidi, originali chiavi di lettura sul percorso compiuto dal popolo ebraico nel secolo scorso e soprattutto nuove domande sul futuro. A cominciare dall'interrogativo su cosa resti, dopo il più radicale degli annientamenti, della bimillenaria esperienza ebraica in Europa, oggi un polo dell'ebraismo decisamente minoritario rispetto a Israele e Stati Uniti.
Non ci sono solo la Shoah e la nascita dello Stato di Israele a rappresentare nell’immaginario collettivo gli ebrei nel Novecento. Essi furono preceduti dal fecondo incontro della diaspora europea con la modernità. Con lo sforzo di elaborazione politica, il progetto di organizzazione statuale e la dirompente esplosione di creatività culturale che ne sono derivati. La storica Anna Foa propone con questo suo ultimo libro una potente ricostruzione, condotta con grande rigore scientifico, del cambiamento dell’identità ebraica dall’Emancipazione, nella seconda metà dell’Ottocento, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Docente di Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza e studiosa di storia della cultura e della mentalità, la Foa si riallaccia ai suoi precedenti saggi sugli ebrei in Europa e prende le mosse dalla grande ondata migratoria degli ebrei russi verso l’America intorno al 1880. Un’epoca caratterizzata dal diffondersi dei movimenti nazionalistici in tutta Europa mentre l’antisemitismo, mai sopito, acquisiva nuove virulente forme, di pari passo con la diffusione delle teorie sulla superiorità della razza ariana e sull’igiene razziale. Sono pagine illuminanti per capire quale sotterranea ideologia abbia potuto attraversare come una vena carsica la corrente della grande cultura ebraico-tedesca, cuore della civiltà europea, prima che l’aberrazione nazista radesse al suolo il «mondo di ieri» raccontato dallo scrittore viennese Stefan Zweig.
La storica racconta come siano gli ebrei russi che alla fine dell’Ottocento ripensano il rapporto della minoranza ebraica con l’idea di nazione, dando vita ad un progetto «nel quale lo Stato d’Israele non sarebbe stato soltanto una terra di rifugio ma un esperimento sociale e culturale rivoluzionario, alimentato dal nesso costante tra l’idea di uno Stato degli ebrei e l’apporto delle minoranza diasporiche, anche nel conflitto, nel rifiuto, nella divergenza profonda di prospettive».
L’idea della fine della diaspora, dell’emigrazione in massa verso Israele, ricorda la Foa, «non appartiene alla fase iniziale della costruzione dello Stato, ma al periodo successivo alla Shoah, cioè al momento in cui la diaspora europea era stata in gran parte annientata». Fin dagli albori del sionismo l’idea che l’unico rimedio all’antisemitismo fosse lo Stato degli ebrei, quello dove gli ebrei avrebbero smesso di essere diaspora, minoranze fra le nazioni, si accompagnava al «rifiuto violento» della diaspora. Essa veniva vista dai Padri fondatori come «un’esperienza storica assolutamente negativa, la somma delle persecuzioni e della sottomissione degli ebrei, la perdita dell’indipendenza, della dignità, del lavoro».
La Foa ricostruisce con dovizia di dati come l’antisemitismo, per quanto ampiamente presente nel programma con cui Hitler arrivò al potere, non sembrasse preludere allo sterminio. All’inizio i nazisti cercarono di obbligare gli ebrei tedeschi all’emigrazione. Cosa che divenne sempre più difficile dopo il 1933, quando la maggior parte dei Paesi europei e gli Stati Uniti chiusero le frontiere all’immigrazione. Ma in realtà, il silenzio del mondo vent’anni prima sul primo genocidio della storia, quello degli Armeni, aveva convinto il Führer che si potesse massacrare un intero popolo senza reazioni. «Chi si ricorda più del massacro degli armeni?» avrebbe detto in un discorso del 1939, prima di attaccare la Polonia. «Uno dei fili che tracciano delle continuità tra il mondo che precede Hitler e quello nazista – scrive la Foa – è che si era affermata l’idea che fosse possibile sterminare degli interi popoli, braccandone gli individui come i cacciatori braccano le loro prede».
Nella convinzione che solo attraverso l’accertamento delle responsabilità individuali e collettive si possa cercare giustizia e curare le ferite del passato, la Foa individua precise responsabilità fra i gerarchi nazisti, i medici, gli scienziati che resero possibile la Shoah. L’antisemitismo era ampiamente diffuso nella società tedesca fra le due guerre, scrive, poiché «agli ebrei si attribuiva la colpa della sconfitta militare, e poi della Repubblica di Weimar e della terribile crisi finanziaria». Ma molto diffuse erano anche le idee sulla supremazia della razza ariana, sulla «dimensione redentiva» della liberazione dell’umanità dagli ebrei propugnata dal delirio nazista. Dopo aver diffuso per decenni, fin dai tempi imperiali, le teorie sulla razza, quando negli anni precedenti alla guerra almeno 300 mila uomini e donne fra handicappati, malati di mente e portatori di malattie ereditarie furono sottoposti a sterilizzazione forzata, «la responsabilità del ceto medico nel mettere in atto la politica dell’igiene razziale fu altissima» osserva la Foa.
E ancora: la nascita e lo sviluppo dello Stato di Israele, i rapporti con il mondo arabo, le ragioni del declino nel dopoguerra della diaspora europea e dell’ascesa della diaspora americana nella costruzione dell’identità ebraica moderna, l’elaborazione della memoria della Shoah. Una riflessione che si ferma alla fine degli anni Settanta del Novecento, gli anni dell’ultimo «cambiamento globale»: quelli nei quali cambia il clima politico nella società israeliana e cambia anche nelle due diaspore.
Nella settimana della Memoria della Shoah, la Foa consegna dunque ai lettori un saggio di ampio respiro, caratterizzato da giudizi lucidi, originali chiavi di lettura al percorso compiuto dal popolo ebraico nel secolo scorso e soprattutto nuove domande sul futuro. A cominciare dall’interrogativo su cosa resti, dopo il più radicale degli annientamenti, della bimillenaria esperienza ebraica in Europa, oggi un polo dell’ebraismo decisamente minoritario rispetto a Israele e Stati Uniti. Persino la pletora di istituzioni, musei, iniziative, convegni, libri sulla storia degli ebrei e della Shoah presenti nei Paesi europei, riflette la studiosa, rappresenta «un fenomeno di altissimo interesse e spesso di grande qualità, ma non privo di equivoci e possibilità di fraintendimenti» considerato che, contrariamente alle apparenze, non necessariamente si tratta di una storia tutta al passato. Per questo è vivo il dibattito nelle comunità ebraiche su come realizzare musei «che raccontino quel che c’è e non solo quello che si è perduto». Occorre dunque chiedersi quali forme identitarie dell’ebraismo si vogliano trasmettere oggi e inventare nuovi stimoli per il mondo di domani.