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I vescovi iracheni chiedono un Sinodo per il Medio Oriente

22/01/2009  |  Roma
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I vescovi iracheni chiedono con forza «un Sinodo per il Medio Oriente» per discutere la situazione dei cristiani e «indicare prospettive per il loro futuro»; rivolgono un appello alla comunità internazionale perché si faccia carico «non solo dei rifugiati ma anche dei cristiani che sono rimasti in Iraq», e al nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dicono: «L'Iraq va affidato agli iracheni in condizioni di pace e di sicurezza, e non lasciato ai Paesi che tentano di metterci le mani sopra». A Roma per la quinquennale visita ad limina, i vescovi caldei ritengono che un Sinodo possa analizzare la situazione in modo sistematico. La richiesta, presumibilmente, verrà rivolta al Papa la prossima settimana.


I vescovi iracheni chiedono con forza «un Sinodo per il Medio Oriente» per discutere la situazione dei cristiani e «indicare prospettive per il loro futuro»; rivolgono un appello alla comunità internazionale perché si faccia carico «non solo dei rifugiati ma anche dei cristiani che sono rimasti in Iraq», e lottano tra rapimenti e attentati contro quello che i presuli non esitano a definire un «complotto perché lascino il Paese», come dimostra «il martirio di 500 persone, fra le quali un vescovo e quattro sacerdoti» in questi anni. E al nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che durante l’insediamento ha detto di volere «affidare l’Iraq alla responsabilità del suo popolo», replicano: «L’Iraq va affidato agli iracheni in condizioni di pace e di sicurezza, e non lasciato ai Paesi che tentano di metterci le mani sopra».

A Roma per la quinquennale visita ad limina in Vaticano, i vescovi caldei hanno sollecitato una maggiore attenzione al dramma dei 5 milioni di iracheni sfollati dall’inizio della guerra nel 2003 (almeno due milioni all’estero e gli altri in patria) in occasione della presentazione ieri sera a Radio Vaticana del documentario Iraq SOS rifugiati girato in Siria e Giordania da Elisabetta Valgiusti (fondatrice dell’associazione Salva i monasteri).

È stato l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Luis Sako, a lanciare l’idea di un Sinodo per il Medio Oriente «come quelli organizzati per Africa, Asia, America Latina o per lo stesso Libano». Perché «i problemi dei cristiani sono gli stessi in Iraq, Palestina, Libano» e riguardano tanto l’emigrazione quanto la convivenza con i musulmani nei loro Paesi, dove malgrado le discriminazioni «hanno una testimonianza da portare», a cominciare «dal perdono». «Non abbiamo la visione d’insieme, la capacità per studiare da soli un tema così complesso: occorre che il Vaticano prepari con cura un Sinodo per approfondire la situazione dei cristiani nei loro Paesi e nella diaspora, il loro ruolo nella politica in Medio Oriente, i rapporti con l’islam e per indicare delle prospettive per il nostro futuro».

È stato mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, a dar voce alle speranze degli iracheni sul nuovo presidente degli Stati Uniti: «Il futuro dei cristiani in Iraq è oscuro e il fatto che Obama abbia detto di voler uscire dall’Iraq con responsabilità deve voler dire restituire l’Iraq agli iracheni in pace e sicurezza, senza interessi. Abbiamo sofferto tanto a causa degli Stati Uniti e abbiamo bisogno che qualcuno curi le nostre ferite, anche perché sono tanti i Paesi che vorrebbero metter le mani sull’Iraq… La democrazia non si esporta ma va insegnata ed imparata» ha osservato. E poi c’è il problema politico dei cristiani, del tentativo di relegarli in un ghetto nella piana di Ninive, che la Chiesa locale ha osteggiato con forza: «la nostra situazione viene politicizzata dagli arabi e dai curdi, abbiamo un solo seggio per centinaia di migliaia di cristiani, solo a novembre 2.500 famiglie se ne sono andate da Mosul: abbiamo gridato ma nessuno ci ascoltava, né in Iraq, né in America né in Europa… Bisogna far conoscere questo problema affinché i governanti possano fare qualcosa nell’interesse degli iracheni».

Dall’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, mons. Georges Casmoussa, è venuta l’ammissione che il problema politico dei cristiani è iniziato ben prima della guerra ingaggiata dagli Stati Uniti. «Avevamo difficoltà prima del 2003 ed ora sono 100 volte superiori… Ma il problema non sono gli americani, che prima o poi se ne andranno. Il problema in Iraq – ha osservato – è la negazione dell’altro: è il fatto che la maggioranza non accetta la minoranza, se non come strumento di potere. I cristiani si considerano cittadini di tradizione locale, hanno radici in questa terra e non sono un’importazione occidentale. Quindi non capisce perché non dovrebbero essere accettati come cittadini pari agli altri. Abbiamo chiesto di poter continuare a vivere in Iraq come abbiamo sempre fatto e vogliamo che siano riconosciuti i nostri diritti civili: ci vogliono leggi che tutelino la nostra presenza ed è quello che manca in Iraq fin dall’indipendenza».

«Quando i cristiani – ha proseguito il presule – vedono che nei loro villaggi il governo confisca le loro terre per darle ad altri, si sentono come se togliessero loro il tappeto da sotto i piedi: è chiaro che le pressioni dei fondamentalisti e la presenza degli occupanti americani rendono questa situazione ancora più fragile. Quando una minoranza del 3-4 per cento si sente continuamente perseguitata è ovvio che per prima cosa fugga all’estero in cerca di una vita pacifica, ma oltre a occuparsi dei rifugiati bisognerebbe risolvere a monte il problema del riconoscimento dei diritti. Anche perché poi – ha aggiunto Casmoussa – i rifugiati vengono incoraggiati a restare all’estero, e quelli in patria a raggiungerli… Personalmente non sono ottimista sul ritorno dei cristiani rifugiati: rientreranno in patria solo se potranno avere scuole, università, lavoro, pari diritti di cittadinanza e non solo tolleranza».

L’arcivescovo Sako ha rivendicato come il bene politico che i cristiani possono offrire nei Paesi arabi sia proprio il rispetto del pluralismo: «La democrazia non è la stessa in Medio Oriente, dove uno dei problemi è l’uso della libertà: senza cultura politica e dopo 35 anni di dittatura abbiamo bisogno di essere formati al rispetto del diverso per garantire un Iraq unito e forte, dove ci sia una classe dirigente che prepari il futuro con le competenze e non le armi», ha detto. «Questo è il contributo che dopo duemila anni i cristiani possono continuare a portare». A maggior ragione dopo la testimonianza di «500 martiri, tra i quali un vescovo e quattro preti». Un Sinodo, ha detto, potrebbe analizzare la situazione in modo sistematico e capire quali direzioni prendere per l’avvenire e come assistere chi rimane all’estero. La richiesta presumibilmente verrà rivolta al Papa la prossima settimana, quando inizierà la visita ad limina dei vescovi caldei.

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