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I rapporti ecumenici tra le Chiese in Terra Santa

20/01/2009  |  Gerusalemme
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I rapporti ecumenici tra le Chiese in Terra Santa
Padre Fran Bouwen, membro dell'istituto dei Missionari d'Africa. (foto Cts/Mab)

Il sito istituzionale della Custodia di Terra Santa pubblica un'intervista a un acuto osservatore delle dinamiche ecumeniche in Medio Oriente: il belga padre Frans Bouwen, membro della comunità dei Padri bianchi (anche noti come Missionari d'Africa) che vive presso la chiesa di Sant'Anna, nella Gerusalemme vecchia. Riprendiamo le riflessioni di Bouwen proponendole all'attenzione dei nostri lettori. Negli ultimi 30 o 40 anni, dice il religioso, i rapporti tra le gerarchie delle 13 comunità cristiane che gravitano su Gerusalemme sono molto migliorati. Ma a volte bastano anche piccoli incidenti di percorso per fare passi indietro anche drastici.


Il sito istituzionale della Custodia di Terra Santa pubblica un’intervista a un acuto osservatore delle dinamiche ecumeniche in Medio Oriente: il belga padre Frans Bouwen, membro della comunità dei Padri bianchi (anche noti come Missionari d’Africa) che vive presso la chiesa di Sant’Anna, nella Gerusalemme vecchia. Riprendiamo le riflessioni di padre Bouwen proponendole all’attenzione dei nostri lettori. 

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Spesso i pellegrini tornano dalla Terra Santa con l’impressione di aver toccato da vicino lo scandalo della divisione delle Chiese. Padre Frans Bouwen, religioso dei Missionari d’Africa a Gerusalemme, osserva da quarant’anni l’evoluzione del dialogo ecumenico. In occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci offre la sua percezione dell’attualità.

Come sta l’ecumenismo in Terra Santa?
Difficile a dirsi in poche parole. Ma direi che nei 30 o 40 anni passati, i progressi sono stati considerevoli. Avrei fatto fatica a immaginare, 30 anni fa, che saremmo arrivati dove siamo oggi. Vedo una lenta progressione che è iniziata con la visita di Papa Paolo VI a Gerusalemme nel 1964 e il suo incontro con il patriarca ortodosso Athenagoras di Costantinopoli, ma soprattutto con il patriarca ortodosso di Gerusalemme, all’epoca Benediktos. Questa progressione si è poi svolta passo a passo.
È necessario distinguere i livelli, gli incontri. Ci sono così tante cose che succedono nell’ecumenismo che il processo è pressoché inavvertibile. È necessario distinguere i Luoghi Santi, le relazioni tra le gerarchie e le relazioni tra i fedeli delle diverse confessioni. Quanto ai parroci, questo dipende soprattutto dalla persona.
Penso ci siano dei progressi considerevoli, ma questi non sono mai garantiti una volta per tutte, e noi costatiamo regolarmente che un piccolo avvenimento ci può far arretrare di 5 o 10 anni, e allora bisogna ricominciare da capo.

I capi delle Chiese si incontrano?
I capi delle Chiese si incontrano all’incirca ogni due mesi, i capi di 13 Chiese e il padre Custode. Si tratta di un’abitudine che si è instaurata dopo il 1994, vale a dire dopo la pubblicazione del primo memorandum comune sul significato di Gerusalemme per i cristiani.

Che cosa si dicono in queste riunioni?
Sono in primo luogo degli incontri fraterni, e questo è molto importante. Gli argomenti trattati riguardano spesso dei problemi comuni, delle difficoltà che vengono generalmente dall’esterno, e che sono sovente legate alla situazione del paese. Ad esempio, l’accesso a Gerusalemme, il pagare o meno le tasse, la libertà di movimento dei cristiani, la questione dell’ottenimento dei visti per i religiosi, gli studenti, i volontari, ecc. È già un grande passo in avanti, quello che è stato abbozzato dagli inizi della prima intifada, alla fine del 1987.
Resta loro più difficile affrontare i problemi che le Chiese possono avere tra loro. Arrivano a prendere posizioni comuni di fronte a problemi che sopravvengono dall’esterno, ma per le delicate questioni relative ai rapporti tra le Chiese, ho l’impressione che facciano ancora fatica ad affrontarle direttamente.

Queste questioni delicate sono questioni teologiche?
No. Qui a Gerusalemme non abbiamo persone competenti per abbozzare un dialogo a livello teologico. Nella Chiesa cattolica e greco-ortodossa sicuramente si, ma alcune Chiese minori sono più povere. Inoltre, le Chiese ortodosse non ritengono di avere la legittimità di lavorare su questo piano, e si rimettono alle loro più alte autorità, che sono al di fuori del Paese.
Tra i problemi esistenti tra le Chiese, soprattutto tra cattolici e ortodossi, che da soli rappresentano il 95 per cento dei cristiani del Paese, il più delicato è senza dubbio il problema del proselitismo. Gli ortodossi rimproverano ancora i cattolici di fare del proselitismo tra i loro fedeli. Penso che questo tempo sia passato, ma nelle relazioni questo punto resta molto sensibile per gli ortodossi. Dobbiamo avere l’umiltà, noi cattolici, di riconoscere che le nostre comunità sono costituite per gran parte da fedeli provenienti dall’Ortodossia.

Con l’installazione dei francescani nel XIV secolo?
No, principalmente dopo la restaurazione del patriarcato latino nel XIX secolo. Delle comunità cattoliche esistevano precedentemente, ma erano perlopiù ridotte e vivevano soprattutto attorno ai Luoghi Santi e in qualche parrocchia. Con la restaurazione del patriarcato latino c’è stato un movimento che si definiva missionario. Bisogna vedere le cose nel loro contesto. Questi missionari hanno fatto un lavoro considerevole e hanno certamente contribuito in modo forte a fermare la progressione dell’islam in certe regioni, grazie alle scuole e al rinnovamento cristiano, di cui essi costituiscono gli iniziatori nelle parrocchie. Ma lavorare per il rinnovamento o per l’unità, nella mentalità dell’epoca, consisteva anche nel lavorare per il «ritorno» dei non cattolici, e in particolare degli ortodossi.
La Chiesa ortodossa non ha ancora accettato che, in un momento in cui non disponeva né di mezzi né di personale, le cose siano andate in questo modo; e ancora oggi certi responsabili ortodossi continuano a ritenerci colpevoli di fare del proselitismo. Ora, io penso che grandi sforzi siano stati compiuti, dopo il Vaticano II, e che tutto ciò non esista più. D’altronde, se chiediamo loro di citare dei fatti, ci attestano episodi vecchi di 15 o 20 anni. Rimane il fatto che questa resta una ferita per loro, e che non si arriva ancora a sgonfiare quest’ascesso discutendone apertamente. Noi cattolici dobbiamo provare a comprendere la sensibilità degli altri, e allora, poco a poco, molte cose diverranno possibili.

Per tornare agli incontri tra le autorità ecclesiastiche, non c’è una riflessione comune?
Ci sono state, per esempio, due mezze giornate di ritiro comune tra i capi delle Chiese, su un testo delle Scritture, in occasione di una festa. Ciò si è rivelato particolarmente ricco, ma resta un fatto del tutto eccezionale, finora.

A un livello inferiore e in mancanza di una commissione teologica, esiste un altro tipo di dialogo?
Si. Alcuni sostengono che ci possano essere degli scambi nella pastorale. Avviene, qua o là, ma è molto difficile generalizzare. Abbiamo affrontato anche le questioni di aiuto reciproco tra le scuole, e del rispetto dell’appartenenza ecclesiale degli allievi nelle scuole. Molti bambini ortodossi sono scolarizzati nelle scuole cattoliche perché queste sono più numerose e più diffuse nelle varie regioni. Di qui si pone la questione dell’influenza del cattolicesimo e, dall’altra parte, del necessario rispetto dell’identità di ciascun allievo. Il ciclo di studi dura 12 anni. Un bambino ortodosso (o di altra confessione) che fa tutto il suo percorso di studi in una scuola cattolica, che comunica nella Messa, che si confessa, può finire a trovarsi più a suo agio nella Chiesa cattolica che nella sua confessione di battesimo. Il merito della Chiesa cattolica è di dare questa formazione cristiana senza rendere i ragazzi estranei alla propria Chiesa. Tutto ciò presuppone un’attenzione del tutto speciale, se veramente desideriamo fare progredire l’ecumenismo.

E cosa si può dire dei fedeli «di base»?
Penso che – ed è un fatto sociologico generalizzabile al Medio Oriente – i fedeli si identifichino più facilmente come cristiani, mentre il clero s’identifica sul piano confessionale, per l’appartenenza ecclesiale. Per i fedeli ciò che conta è piuttosto la solidarietà dei cristiani in presenza di non cristiani, e la collaborazione si instaura spontaneamente tra loro. Se voi guardate quanti insegnanti ortodossi si hanno nelle scuole cattoliche, quanti membri e collaboratori ortodossi si hanno nelle opere sociali, per esempio Caritas, o nei movimenti giovanili: scouts, Ymca, Ywca, Jec, Joc, ecc. Ovunque si può constatare che cattolici, ortodossi e protestanti lavorano insieme. E io credo che questa fusione si ritrovi in pressoché tutte le famiglie. Ciò agevola molto la spontaneità di questa collaborazione, che gli stessi cristiani avvertono come di importanza vitale per la presenza cristiana. A tal punto che i cristiani a volte dicono: «L’unità non è un problema, l’unica cosa che ancora ci separa sono le date delle festività». È un po’ semplicistico, ma è quello che avvertono.

C’è differenza tra l’ecumenismo nei Territori Palestinesi e in Israele?
Non in modo profondo, ma penso che a Nazareth le relazioni ecumeniche, su tutti i piani, siano un po’ più facili, più spontanee, più fraterne al livello dei capi delle Chiese; a livello dei fedeli, invece, penso non ci sia differenza. Questo è senza dubbio dovuto al fatto che è un altro ambiente, e che è un po’ più distante dal centro, da Gerusalemme.

Malgrado le accuse che vengono rivolte alla Chiesa di Gerusalemme, l’ecumenismo esiste dunque in Terra Santa?
Quando si dice che la divisione delle Chiese è uno scandalo, soprattutto a Gerusalemme, dove Gesù ha pregato per l’unità dei suoi ecc., io sono d’accordo, ma bisogna aggiungere che nessuna delle divisioni di cui soffriamo è nata qui. Esse sono state tutte importate dall’esterno. Quindi, la Chiesa di Gerusalemme non ne è responsabile, ma ne porta le conseguenze. Conviene che i pellegrini, che oggi si dicono scandalizzati per le divisioni esistenti, se ne rendano bene conto.

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