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Dialogare con gli ebrei è rivolgersi a un intero popolo

16/01/2009  |  Roma
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Riceviamo, e vi proponiamo, una riflessione di padre David Maria Jaeger, sulle polemiche rinfocolate nei giorni scorsi da un intervento del rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, sulla rivista Popoli a proposito delle relazioni tra ebrei e cattolici in Italia. Il francescano contesta che il dialogo tra la Chiesa e il popolo ebraico versi in cattive acque e invita a distinguere «tra il dialogo dei "funzionari" e quello reale, che si svolge a 360 gradi, in Israele, in Italia e altrove nella diaspora».


Durante la registrazione di un’intervista televisiva recentemente (per una rete locale o comunque non tra le principali), che di ben altro trattava, l’intervistatore mi ha chiesto all’improvviso un commento su una dichiarazione di un rabbino di una delle piccole collettività italiane fuori Roma, il quale avrebbe detto di aver sospeso il dialogo con la Chiesa cattolica (nientemeno!) per protesta contro il Papa, che, a dir suo, avrebbe fatto cancellare gli ultimi cinquant’anni del dialogo tra cattolici ed ebrei – o così mi è sembrato di sentire.

Da cattolico e da figlio e membro del popolo ebraico me ne sono sentito piuttosto offeso, anche se non ho mancato di vedere la dimensione comica di una dichiarazione di sì epocale portata proveniente però da un mero angolino della diaspora, quasi potesse assurgere ad espressione del giudizio di più di 13 milioni di ebrei in tutti i continenti, di cui la maggioranza comunque vive oramai nello Stato di Israele. Penso di aver detto qualche cosa di simile, ma non ricordo esattamente come ho risposto, per lo sgomento che mi ha preso, per la preoccupazione per il danno che possa essere stato recato in questo modo ad una delle massime priorità del nostro Popolo. Mi preoccupavo, e mi preoccupo, perché non posso essere certo che i «gentili» tutti capiscano quanto poco rappresentativa sia una simile presa di posizione dei sentimenti e delle aspirazioni degli ebrei, in Israele e nella diaspora. Per molti forse basti che una dichiarazione, sia pure la più inverosimile, sia attribuita ad «un rabbino», perché pensino che debba esprimere la mente dell’intero mondo ebraico. La verità non potrebbe essere più diversa. L’ebraismo non ha una «gerarchia», e i rabbini non sono né sacerdoti né, molto meno, «vescovi», ma sono piuttosto periti e docenti della Torah e delle leggi religiose, autorevolissimi certo all’interno di questa sfera, ma quando si esprimono su altre materie, non manifestano che i loro giudizi personali, da rispettare certamente sempre, ma non da ritenere proclami che impegnano l’intera collettività, e meno ancora collettività diverse da quelle rispettivamente da loro servite. Non meno della gratuita offesa alla persona del Sommo Pontefice, mi preoccupa, come già detto, il danno che ne potrebbe subire l’amicizia sempre crescente tra i cattolici e gli ebrei quasi ovunque, la quale, nonostante quello che pensi quell’individuo (o alcuni altri che eventualmente ne condividano il pensiero), è palesemente in ottima salute.

Per scongiurare tale danno, mi si permetta di distinguere tra il dialogo dei «funzionari» e quello reale, che si svolge a 360 gradi, in Israele, in Italia e altrove nella diaspora. Le alterne vicende del dialogo dei «funzionari», le periodiche sue «crisi», sono oramai più che ben note. Ogni tanto qualcuno tira fuori qualche altro argomento per creare l’impressione di frizione, di divergenze abissali, in una parola di «crisi». Qualche volta è la persona e l’opera del Servo di Dio Papa Pio XII, altre volte sarà la «Preghiera per gli ebrei» approvata dal Pontefice regnante per l’uso nella celebrazione della forma straordinaria del rito della Santa Messa, o qualsiasi altra circostanza che si presta ad una «tempesta nella tazza di tè» (come si dice in inglese). Chi segue solo queste ricorrenti «crisi», più o meno montate ad arte, potrebbe pensare che davvero l’amicizia cattolica-ebraica possa essere finita o in procinto di esserlo. Ma tutto questo non importa più di tanto, poco.

Un poco siamo «in colpa» noi cattolici, per il modo in cui spesso impostiamo il dialogo, almeno concettualmente. Abituati ad un modello «gerarchico» di organizzazione religiosa, insistiamo nel voler darci una «controparte», un «partner» a nostra immagine e somiglianza, anche quando proprio non esiste. È così che, trovandoci davanti una religione non-gerarchica (come lo sono in tante, non solo l’ebraismo), siamo persino pronti a spingere alla creazione ad hoc di organi che potremmo poi ritenere rappresentativi, quasi fossero speculari alle nostre istanze gerarchiche. E così siamo indotti nell’errore di credere che dialogando con queste presunte rappresentanze, ci troviamo effettivamente a dialogo con l’intera comunità mondiale degli aderenti alla religione interessata. Dando in mano a predette (auto- o etero-costituite) «rappresentanze» il potere di «premiarci» per la «buona condotta» o di «punirci» per quella «cattiva».

Invece dovremmo liberarci dal voler «organizzare» il prossimo secondo i nostri modelli, ed aprirci più decisamente ad un dialogo che rispetti l’effettiva realtà dell’«altro». Dialogare con gli ebrei non può così essere concepito come soprattutto egualmente «istituzionale» da entrambe le parti. Dialogare con gli ebrei vuol dire rivolgersi ad un intero popolo, in Israele e nella diaspora, con tutte le sue componenti, religiose e non. Dialogare con ebrei ortodossi, «riformati» e «conservatori» (il che vuol dire più liberali degli ortodossi ma meno liberali dei «riformati») e con le molteplici suddivisioni di questi grandi movimenti ossia «denominazioni». Dialogare con le diverse grandi e piccole correnti di pensiero, con gli scrittori, gli intellettuali, gli artisti; con i giovani e con i meno giovani; con la «sinistra» e con la «destra»; con chi vede in Israele la sola possibilità per un futuro per il suo popolo, e con chi vuol valorizzare pure la rinascita e il rinnovamento delle tante comunità della diaspora, piccole e grandi; con i credenti e i praticanti, ma anche con chi vuole proseguire nella ridefinizione prettamente laica del popolo ebraico, che fu l’audace progetto della più parte degli ideatori del movimento nazionale ebraico, il Sionismo delle origini.

Dialogare con gli ebrei vuol dire saper distinguere – sempre rispettosamente – tra le sensibilità proprie degli ebrei di Israele e di quelli che vivono la condizione di minoranza (più o meno libera, più o meno tutelata) nella diaspora, sapendo valorizzare i punti di incontro specifici, che offre la grande diversità di queste situazioni, e nello stesso tempo riconoscere anche le rispettive sfide caratteristiche.

Salve sempre le competenze esclusive del magistero ecclesiastico in materia di fede, dialogare con gli ebrei non può essere opera delle sole istanze gerarchiche o «istituzionali» della Chiesa, ma deve coinvolgere l’intera comunità della Chiesa, deve dispiegarsi anche negli scambi specifici tra appartenenti alle stesse aree culturali, professionali, sociali. È un compito per la Chiesa tutt’intera, non solo per gli specialisti o per funzionari istituzionalmente a ciò deputati.

Il dialogo con gli ebrei non può che essere una vasta conversazione plurima.

E questo dialogo c’è, e continua e continuerà, anche se moltissimo rimane ancora da fare, soprattutto rispetto alla nostra stessa «concettualizzazione» di esso. E nessuno debba più pensare di averne in mano le chiavi in modo da poterlo mai fermare o condizionare dai suoi cavilli, questi o altri. Né dobbiamo lasciarci impressionare più di tanto da chi pensi di poterlo fare.

«Eppur si muove» sarebbe stata la mia miglior risposta alla domanda fattami a sorpresa dall’intervistatore, anche se, come spesso accade, mi è venuta alla mente solo nel taxi che mi riportava a casa…

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