Fornire «un'istruzione di alto livello» fondata su «capacità critica, progettuale e spirito d'iniziativa» che vada incontro alle «effettive necessità produttive e alle possibilità occupazionali» della Palestina: solo così si potrà frenare «la fuga di cervelli» delle migliori menti palestinesi. In questo modo il professore australiano Peter Bray, nuovo rettore dell'Università di Betlemme, unico ateneo cattolico fra gli 11 presenti fra Cisgiordania e Striscia di Gaza, presenta in un'intervista a Terrasanta.net gli obiettivi del suo mandato alla vigilia dell'assunzione formale dell'incarico il primo febbraio.
(Milano) – Fornire «un’istruzione di alto livello» fondata su «capacità critica, progettuale e spirito d’iniziativa» che vada incontro alle «effettive necessità produttive e alle possibilità occupazionali» della Palestina: solo così si potrà frenare «la fuga di cervelli» delle migliori menti palestinesi. In questo modo il professore australiano Peter Bray, nuovo rettore della Bethlehem University, unica università cattolica fra le 11 presenti fra Cisgiordania e Striscia di Gaza, presenta in questa intervista a Terrasanta.net gli obiettivi del suo mandato alla vigilia dell’assunzione formale dell’incarico il primo febbraio, e mentre volge al termine a Roma l’incontro semestrale del Consiglio di amministrazione internazionale dell’ateneo fondato nel 1973 dai Fratelli delle Scuole Cristiane.
Giunto meno di tre mesi fa a Betlemme dall’università di Wellington, in Nuova Zelanda, dove ha insegnato per molti anni Leadership, il professore dice di voler «insegnare e imparare» dai 2.800 studenti dell’ateneo, al 69 per cento musulmani (contro il 31 per cento di cristiani), al 71 per cento donne e al 60 per cento di Betlemme (il 30 per cento viene da Gerusalemme Est, il 6 per cento dai campi profughi di Betlemme). Racconta di essere rimasto colpito dalla «fortissima capacità di reagire» dei palestinesi di fronte al trauma della costruzione del Muro che per la prima volta ha separato Betlemme da Gerusalemme (distanti appena 8 chilometri – ndr) e imposto crescenti restrizioni ai movimenti di docenti e studenti. Oggi, spiega, le principali sfide sono proprio quelle di «riuscire a portare gli studenti in classe» a dispetto dei check-point e trovare filantropi che sostengano l’insostituibile lavoro della Bethlehem University.
Professor Bray, quali sono le sue prime impressioni?
Ero stato a Betlemme solo una volta in precedenza, e ho passato queste prime 11 settimane incontrando le persone, ascoltando, scoprendo i diversi aspetti della vita nel Campus. La cosa che mi ha colpito di più è stata sicuramente l’impatto dell’occupazione sulla vita degli studenti, dei docenti e del nostro staff, e la loro grande capacità di reagire di fronte alle restrizioni continue alla loro libertà di movimento. Mi ha colpito come riescano a continuare a lavorare e studiare in una situazione simile, mentre molta altra gente nei nostri Paesi probabilmente avrebbe mollato da un pezzo… Molti studenti vengono da Gerusalemme Est e devono passare ogni giorno attraverso il Muro di separazione, superare il controllo dei check-point e l’aspetto più inquietante è l’incertezza, il non sapere cosa accadrà ai posti di blocco: certi giorni si passa tranquillamente, altre volte si aspetta per ore. Talvolta alcuni vengono fatti scendere dall’autobus senza spiegazioni… Sono ammirato dalla determinazione di questi giovani nell’affrontare simili difficoltà, ma allo stesso tempo mi rendo conto dell’impatto negativo che questa situazione comporta sulla loro capacità di apprendimento.
Che atmosfera si respira nel Campus dopo la recente campagna militare nella Striscia di Gaza?
Mi sono trovato a iniziare questa mia esperienza proprio subito prima che iniziasse l’offensiva, e durante tutta la sua durata i discorsi andavano inevitabilmente su quello che stava accadendo. Prima della seconda intifada noi avevamo 438 studenti della Striscia, ai quali dopo il 2001 è stato impedito continuare gli studi presso il nostro ateneo. Non sappiamo cosa ne sia stato di loro. Molti studenti mi parlavano degli amici e parenti che hanno a Gaza, le notizie erano poche, tutti temevano che fossero stati feriti. L’impatto sul morale degli studenti è stato davvero devastante. Fino al 2001 avevamo studenti di Gerusalemme nord, di Ramallah, dei quali abbiamo perso le tracce: il Muro e i posti di blocco hanno reso impossibile continuare gli studi. Betlemme è diventata una prigione.
L’università di Betlemme è stata fondata per essere «un centro di progresso, condivisione e utilizzo delle conoscenze». Come vede la sua missione 35 anni dopo la fondazione?
Il nostro compito continua a essere quello di fornire un’istruzione di alto livello che vada incontro alle necessità produttive e alle possibilità occupazionali della società palestinese: ad esempio due dei nostri programmi di punta sono il Master in Cooperazione internazionale per lo sviluppo, e l’Istituto Cardinal Martini per la Leadership. Cerchiamo di dare agli studenti i mezzi per costruire il loro futuro in Palestina, perché non vadano a cercare un lavoro all’estero. Una delle nostre soddisfazioni è vedere che tra gli 11 mila laureati di questi primi 35 anni ci sono oggi molti insegnanti e ricercatori palestinesi, oltre a moltissime infermiere e operatori delle organizzazioni non governative…
Quali sono i problemi dell’università?
La nostra prima sfida riguarda la copertura del bilancio, perché il 69 per cento delle nostre entrate dipende dalle donazioni e io non sono mai stato in un’istituzione dove una parte così ampia del bilancio è tanto incerta… Il costo annuale per ogni studente è di circa 3.600 dollari: ma la maggior parte degli studenti può pagare solo fra i 300 e i 500 dollari, circa il 10 per cento del costo; l’Autorità palestinese contribuisce per circa il 7 per cento, il Vaticano copre circa il 12 per cento. Quindi dobbiamo trovare ogni anno quasi il restante 70 per cento del bilancio! Per questo l’aiuto dei nostri donatori è davvero fondamentale: anche i Paesi del Golfo contribuiscono con delle borse di studio.
La seconda sfida che affrontiamo da qualche anno è, come ho già detto, far arrivare fisicamente gli studenti in facoltà, per via di tutte le restrizioni esistenti. La terza è quella di fare in modo che i cristiani non lascino la Terra Santa, soprattutto dopo aver investito tanto nella loro formazione. Una delle nostre priorità è fermare la fuga di cervelli: perciò ci sforziamo di fare in modo che i laureati passino rapidamente dall’università al mondo del lavoro.
Che cosa le piacerebbe realizzare?
Vorrei concentrarmi sull’insegnamento, sull’ascolto e anche sui processi di apprendimento. Dobbiamo fare in modo che tutti i nostri docenti e studenti non solo apprendano delle nozioni, ma crescano intellettualmente e spiritualmente con lo studio: che siano in grado di pensare diversamente. Come università, dobbiamo andare al di là della memorizzazione e stimolare la capacità critica, progettuale, lo spirito di iniziativa. Cerchiamo di insistere sul fatto che, nonostante tutte le restrizioni che l’occupazione israeliana pone su di loro, l’istruzione è la migliore arma a disposizione dei palestinesi per costruire il loro Paese.
Noi lo abbiamo invitato, anche se certo sappiamo che è difficile che possa venire. Però abbiamo fatto presente in Vaticano che la nostra università è stata creata sulla scia della storica visita di Paolo VI in Terra Santa, dopo che un gruppo di cristiani palestinesi aveva fatto presente al Pontefice che non c’era nessuna università cattolica in Cisgiordania. Così nacque l’ateneo, nel 1973, e così si spiega anche perché il Vaticano continui a sostenerlo. E poi il Papa è un accademico e noi siamo l’unica università cattolica palestinese. Sarebbe meraviglioso se venisse. Sul viaggio, tra gli studenti ci sono sentimenti ambigui: molti di loro si chiedono che tipo di messaggio lancerà allo Stato di Israele. E, dopo quello che è successo a Gaza, sono perplessi di fronte alla prospettiva che la sua visita possa in qualche modo avallare la politica del governo israeliano verso i palestinesi.