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Un convegno sulle garanzie internazionali per i Luoghi Santi

13/12/2008  |  Roma
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Un convegno sulle garanzie internazionali per i Luoghi Santi
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Per anni leader israeliani e palestinesi, diplomatici e mediatori internazionali si sono affannati a ripetere che, a dispetto di tutto, quello israelo-palestinese era un conflitto meramente territoriale fra due opposti nazionalismi, nel quale le religioni non avevano nulla a che vedere. Era uno strenuo difensore di questa tesi anche Daniel Seidemann, considerato fra i massimi esperti legali israeliani sulle controversie fra le comunità religiose ebraica e palestinese di Gerusalemme e consulente per diversi anni della Commissione del Dipartimento di Stato Usa sulla libertà religiosa nel mondo. Oggi anche lui fa autocritica nel corso di un convegno svoltosi a Roma nei giorni scorsi.


Per anni leader israeliani e palestinesi, diplomatici e mediatori internazionali si sono affannati a ripetere che, a dispetto di tutto, quello israelo-palestinese era un conflitto meramente territoriale fra due opposti nazionalismi, nel quale le religioni non avevano nulla a che vedere. Era uno strenuo difensore di questa tesi anche Daniel Seidemann, considerato fra i massimi esperti legali israeliani sulle controversie fra le comunità religiose ebraica e palestinese di Gerusalemme e consulente per diversi anni della Commissione del Dipartimento di Stato Usa sulla libertà religiosa nel mondo. Oggi anche lui fa autocritica: «Ci siamo sbagliati. Escludere dai negoziati le sensibilità religiose è stato un errore. Ed ora è come esser seduti su un vulcano semi-spento ma che può esplodere da un momento all’altro: è un imperativo politico, oltre che morale, coinvolgere nei negoziati di pace i rappresentanti dei credenti» ha detto nel corso del convegno internazionale Prospettive giuridiche comparate sui Luoghi Santi che si è svolto a Roma il 10 e 11 dicembre.

L’incontro, promosso dalla Catholic University of America e dalla Libera Università Maria Ss. Assunta (Lumsa)alla presenza di giuristi americani, italiani, israeliani, palestinesi, è stato aperto dall’amara «lezione dei Balcani», dove, nel corso della guerra fra Serbia e Bosnia-Erzegovina, sono state distrutte 100 chiese cattoliche e più di 300 ortodosse. «Ogni religione deve difendere i suoi luoghi religiosi senza offendere l’altro» ha commentato il cardinale George Cottier, ex predicatore della Casa pontificia. «Se la ricerca di Dio avviene con sincerità e nel rispetto del pluralismo, tendiamo tutti alla pace: questo era lo spirito di Assisi di Giovanni Paolo II e per questo è così importante parlare anche della drammaticità delle situazioni che si verificano in questi fronti di guerra. È normale che le religioni, avendo un aspetto pubblico prima ancora che politico, vedano anche la proprietà dei loro luoghi di culto rispettata e protetta. Quando si parla dei Luoghi santi devono esserci garanzie anche a livello internazionale».

Un dibattito che è entrato nel vivo con la tavola rotonda animata dall’avvocato israeliano Seidemann, dall’omologo palestinese Mazen Qupti e dal francescano David Maria Jaeger, esperto del rapporto fra Chiesa e Stato in Israele. Quella dei «luoghi sacri e diritti di proprietà in Terra Santa» è una questione tutt’altro che secondaria (e che costituisce peraltro uno dei capitoli dei negoziati in corso dal 1994 fra Vaticano e Israele, con un dossier di una trentina di proprietà di cui la Chiesa cattolica reclama la restituzione) se si considera che solo a Gerusalemme un censimento del 1994 ha accertato la presenza di 1.072 sinagoghe, 59 moschee, 65 chiese e 72 conventi. Molti di questi luoghi hanno cambiato proprietario, culto e denominazione nel corso dei secoli. E se c’è una guerra che Israele appare intenzionato a non combattere è quella che, in seguito a una restituzione, potrebbe derivare dalle incandescenti dispute legali, politiche e religiose che si scatenerebbero fra le varie comunità religiose presenti in Terra Santa.

Si capisce perché l’avvocato Seidemann, forte di una lunga esperienza sulle dispute archeologiche e urbanistiche che dilaniano ebrei e arabi di Terra Santa, non esiti a definire Gerusalemme «il nucleo vulcanico del conflitto». «Guardiamo a cosa avviene il venerdì pomeriggio – ha affermato – quando migliaia di ebrei corrono al muro del Tempio, decine di migliaia di musulmani si recano in preghiera alla Spianata delle moschee, e la processione dei francescani, puntuale come un orologio, si snoda lungo la Via Dolorosa per commemorare la Via Crucis. Le tre comunità non si ameranno alla follia, ma funziona. Da questo punto di vista, Gerusalemme è per molti versi il contro-modello dello scontro di civiltà paventato da Huntington: è in realtà il luogo in cui le civiltà si incontrano senza violenza. Ma c’è sempre un potenziale esplosivo a Gerusalemme ed esso deriva da una minaccia reale o percepita ad un luogo santo: per questo si può dire che i segnali di una convivenza scomoda e ben poco romantica co-esistono a Gerusalemme con i rischi di destabilizzazione».

Ed oggi il fallimento del processo di pace sembra imporre un cambiamento di rotta, dopo che «per anni i politici hanno fatto orecchie da mercante» alle richieste dei leader religiosi: «Gerusalemme – ha proseguito Seidemann – non può essere trattata come una mera proprietà immobiliare: questa città è piuttosto la materia grezza della quale sono fatte la fede religiosa e la coscienza nazionale. Per questo non è solo un imperativo morale e culturale, ma un imperativo politico incorporare nel processo di pace le sensibilità delle fedi religiose: se non lo facciamo non arriveremo mai ad un accordo e se anche ci arrivassimo non durerebbe perché sarebbe minato dalle tensioni religiose».

Tensioni che non riguardano di certo solo ebrei e musulmani: «le dispute più famose sono quelle fra israeliani e palestinesi, ma le più amare avvengono all’interno del Santo Sepolcro», sorride il giurista. Il desolante spettacolo che i cristiani divisi danno di se stessi con le periodiche scazzottate in quello che per i cristiani è il Sancta Sanctorum «mette Israele in una posizione difficile, perché la comunità internazionale non ci riconosce come mediatore imparziale e sovrano a Gerusalemme. Per questo penso che tutto possa essere risolto con un accordo onnicomprensivo, ma dobbiamo sapere che certi conflitti possono essere semplicemente gestiti, non certo risolti».

Che ci sia bisogno di coinvolgere le autorità religiose nei negoziati sembra essere un assunto condiviso: «Nel 2000, a Camp David, il presidente Bill Clinton, il premier Ehud Barak e il presidente Yasser Arafat pensarono di poter raggiungere un accordo da soli, senza interpellare i leader religiosi: poi si resero conto che era impossibile», ha affermato l’avvocato palestinese, Mazen Qupti. Forse, ha detto, è ora di ripensare all’ipotesi di uno «Statuto speciale internazionalmente garantito» per la Città Santa che le Nazioni Unite, con l’avallo della Santa Sede, avevano proposto fin dal 1947: una formula che non preludeva ad una internazionalizzazione della Città vecchia, ma piuttosto ad una gestione ripartita, non modificabile unilateralmente, dei Luoghi Santi. «Potremmo adottare questo "regime speciale" di co-gestione israeliano-palestinese con l’ausilio della comunità internazionale – ha suggerito il legale – per un periodo transitorio, diciamo 20-25 anni, e vedere che succede: se funziona potrebbe diventare permanente, altrimenti potremmo trovare nel frattempo una formula migliore. L’essenziale è che i due popoli capiscano di non avere la proprietà esclusiva di Gerusalemme, perché questa città appartiene agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani di tutto il mondo».

Padre David M. Jaeger ha sottolineato che «per la Chiesa cattolica un luogo di culto è sacro perché è stato consacrato attraverso degli appropriati riti, tant’è vero che all’occorrenza può essere anche sconsacrato. Voglio dire che è il diritto, e non il misticismo, a stabilire la sacralità di un luogo». Fatta eccezione per la basilica dell’Annunciazione a Nazaret, della Natività a Betlemme e del Santo Sepolcro a Gerusalemme, tutte gli altri santuari cattolici sono «proprietà privata» della Chiesa cattolica. E la Chiesa cattolica, ha concluso, non chiede altro che «il rispetto della proprietà privata».

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