L’autobus lascia la pianura costiera di Haifa e sale lento verso la Galilea. Pochi chilometri fra campi di ulivi, finché sbuca in un incrocio ai piedi di una collina coperta da case grigie ammassate l’una sull’altra. Tamra Center, annuncia l’autista. Cavi elettrici a vista, pochi negozi, un’atmosfera di precarietà diffusa in questa cittadina araba a mezz’ora da Acri. È qui che ha scelto di vivere Susan Nathan, una signora inglese dal viso acqua e sapone che nel 1999, a cinquant, reduce da un divorzio e dopo aver lavorato parecchi anni accanto ai malati di Aids, ha deciso di trasferirsi da Londra a Tel Aviv seguendo la Legge del ritorno prevista per gli ebrei della diaspora. Poi, pochi mesi dopo l’aliya, la scoperta «dell’altro lato» del mito sionista nel quale era cresciuta: quello che lei ha chiamato della «divisione etnica» che separa gli ebrei dagli arabi all’interno di Israele, e il prezzo pagato dai palestinesi, non solo dei Territori o dai profughi ma anche da quelli che hanno potuto scegliere la cittadinanza israeliana, perché il sogno di uno Stato per gli ebrei si realizzasse.
La faccia nascosta. Così è nato il best-seller del 2005 The Other Side of Israel (malamente intitolato in italiano Shalom fratello arabo), tradotto in 10 lingue ma, significativamente, non in ebraico. Un durissimo J’accuse, arrabbiato e a tratti angosciante, sulla politica discriminatoria perseguita in 60 anni dallo Stato ebraico verso la minoranza araba, poco più di un milione su circa sei milioni e mezzo di israeliani.
«Ammetto che se dovessi scriverlo oggi userei toni più pacati: a distanza di tre anni capisco molto di più la complessità della situazione e non sono più così indignata con i miei connazionali. Ma quando l’ho scritto ero talmente scioccata… Non riuscivo a credere che i miei compagni ebrei potessero vivere in un tale stato di ignoranza sulle condizioni di vita dei concittadini arabi», dice mentre serve il caffè turco, forte e speziato, nella bella casa inondata di luce su una delle colline di Tamra, ristrutturata per lei dalla famiglia araba che l’ha adottata.
Alle pareti tele israeliane, palestinesi, sudafricane. Perché è nel Sudafrica dell’apartheid che ha vissuto, da universitaria, le prime esperienze politiche: così ha imparato a riconoscere e denunciare i segni del diverso trattamento riservato ad ebrei e arabi nell’accesso al lavoro, nel peso in politica, nella di stribuzione delle risorse statali per istruzione, servizi, ordine pubblico. Sul tavolino le ultime letture: The Ethnic Cleansing of Palestine dello storico israeliano Ilan Pappe; Out of Place, la biografia dell’intellettuale palestinese Edward Said; Violation, saggio su un famoso caso di razzismo negli Usa, del giornalista David Rose. Punti di riferimento morali che continuano ad alimentare il suo impegno civile.
Paura e ignoranza. Il fatto è che quando nel 2002 è venuta a vivere tra 30 mila arabi stretti come sardine su pochi chilometri quadrati, obbligati dall’espropriazione delle terre ad aggiungere piani ai palazzi esistenti perché non c’è modo di ottenere nuove licenze edilizie, Susan sperava di dimostrare come la paura che divide i due popoli «si basi solo su un’ignoranza alimentata da Israele per tenere la popolazione ebraica separata dai suoi vicini arabi». Oggi, aldilà della sua comprensione più profonda del conflitto e a dispetto di tutte le promesse ascoltate, la scrittrice rileva «un netto peggioramento della condizione di vita degli arabi». Al punto che «potrebbe presto scoppiare una nuova intifada» se non si porrà rimedio al sovraffollamento, alla carenza cronica di infrastrutture, scuole, parchi, impianti fognari dei municipi arabi. Per questo, malgrado il male che l’ha colpita e che ha ispirato il libro sulle donne e la malattia che uscirà nel 2009, viaggia spesso sia in Europa che negli Stati Uniti per dare voce alle richieste dei cittadini arabi di porre fine alla gestione «etnocentrica» della cosa pubblica in Israele. O anche di poter raccontare l’altra storia della guerra del ’48, la nakba, nelle scuole arabe israeliane.
Il paradosso è che il libro che l’ha resa famosa, nato per rompere il silenzio sulle vite degli altri cittadini israeliani, non si può leggere in ebraico. «Israele preferisce vivere nella negazione del problema», allarga le braccia Susan. «La maggior parte di quelli che l’hanno letto in inglese sono rimasti scioccati. Alcuni nutrono una silenziosa ammirazione; altri mi considerano un’estremista». Per la maggior parte, un’inquilina scomoda nel condominio arabo-israeliano.