Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia
Dopo l'avvenimento di Damasco, che segna la chiamati di Paolo ad annunciare Gesù Cristo a tutte le genti, il suo rapporto con Gerusalemme assume per lui sfumature nuove.

Paolo e Gerusalemme

suor Giovanna
12 novembre 2008
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Paolo e Gerusalemme
L'abbraccio tra gli apostoli Pietro e Paolo in una tavoletta d'avorio rinvenuta sotto la cattedrale di Castellamare di Stabia (Napoli).

Lo svelarsi nell’intimo di Paolo della presenza e della conoscenza del Figlio di Dio lo conduce subito nel deserto, a stabilire con lui, nella solitudine della preghiera, quell’intimo rapporto d’amore che lo sorreggerà in tutto il cammino. Poi egli inizia ad annunciare la buona notizia in Damasco, ma non sente il bisogno di andare a Gerusalemme, dove si trovano coloro che hanno vissuto con Gesù. Ormai il pensiero della terra dei padri lo riporta spontaneamente a Colui che ha camminato su quel suolo e ha consumato la sua Pasqua nella città santa. Tuttavia dopo tre anni si mette in viaggio per andare a conoscere Cefa, cioè Pietro. È un soggiorno breve: dura soltanto quindici giorni. Non sembra vi sia un contatto con la comunità. Siamo di fronte al dialogo tra due annunciatori di Cristo: Pietro, che ha vissuto con il Maestro e cerca di trasmettere quello che ha visto e udito da lui; Paolo, che è stato illuminato interiormente a rileggere la Scrittura tante volte meditata alla luce della morte e risurrezione di Gesù. Non sappiamo che cosa si siano detti; possiamo però affermare che si sono trovati in sintonia, perché mossi dallo stesso Spirito. Paolo ricorda di aver incontrato anche Giacomo, il fratello del Signore, che presiede alla Chiesa di Gerusalemme.

Trascorso diverso tempo le difficoltà aumentano, perché l’annuncio ai greci porta con sé la necessità di decisioni che si scostano dalla prassi delle comunità formate da ebrei. Così: «quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba… Esposi loro il vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non correre o aver corso invano… e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi. Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,1-2.9-10).

Una stretta di mano sancisce il risultato di un lungo discernimento, compiuto nell’ascolto reciproco mosso dalla forza dello Spirito, dal quale tutti i discepoli, chiamati a portare la lieta notizia di Gesù Cristo, si lasciano guidare. È proprio lo Spirito Santo che conduce alla comunione fraterna, cercata da Paolo per non correre o aver corso invano. Perché il discepolo non annuncia se stesso o le proprie idee: è portatore di un messaggio che non gli appartiene, al quale è chiamato ad obbedire. E la comunione fraterna conferma in modo visibile che si cammina sulla via.

L’aiuto ai poveri è infatti espressione concreta di questa comunione. Perciò Paolo promuoverà tra le comunità da lui fondate in Asia minore – oggi Turchia – e in Grecia una colletta a favore della Chiesa madre di Gerusalemme afflitta dalla povertà. Il far scaturire dai cuori la volontà concreta di stabilire uguaglianza tra l’abbondanza di chi sta bene e l’indigenza dei fratelli, si rivelerà un potente strumento di evangelizzazione, di rivelazione di Gesù Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).

(L’autrice è clarissa e claustrale presso il monastero Santa Chiara di Milano)

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