La Peace House di Hebron è una vecchia conoscenza di questa rubrica. Dal marzo 2007 in questo edificio della città dei patriarchi si sono insediate venti famiglie di coloni. Da allora tutti ripetono che deve sgomberata. Ma loro sono ancora lì. La settimana scorsa la questione è arrivata davanti alla Corte Suprema israeliana, che ha dato allo Stato tre giorni per procedere allo sgombero. I tre giorni sono passati e non è successo nulla. E ora, in piena campagna elettorale, il tema dilaga sulle pagine dei giornali israeliani.
La Peace House di Hebron è una vecchia conoscenza di questa rubrica. Dal marzo 2007 in questo edificio della città dei patriarchi si sono insediate venti famiglie di coloni. Da allora tutti ripetono che deve sgomberata. Ma loro sono ancora lì. La settimana scorsa la questione è arrivata davanti alla Corte Suprema israeliana, che ha dato allo Stato tre giorni per procedere allo sgombero. I tre giorni sono passati e non è successo nulla. E ora, in piena campagna elettorale, il tema dilaga sulle pagine dei giornali israeliani.
La vicenda della Peace House è esemplare per capire di che cosa stiamo parlando, quando si discute di insediamenti ebraici in Cisgiordania. Come si sa Hebron è uno dei luoghi più caldi del conflitto: quando si traccia la mappa dei due ipotetici Stati si possono tracciare i confini che si vuole; ma qualsiasi logica dice che Hebron dovrebbe far parte del futuro Stato palestinese. Ma Hebron è la città dei patriarchi, la città della tomba di Abramo. E quindi per la destra religiosa è un simbolo potente. Così – fin dal 1968 – i coloni hanno iniziato a stabilirsi a Hebron. E progressivamente cercano di incrementare la loro presenza. Così il 19 marzo 2007 sono entrati in un edificio, un centro commerciale abbandonato per via della crisi economica in cui versa la città da quando è spaccata in due dalle «misure di sicurezza» adottate per permettere a 500 coloni israeliani di poter vivere in mezzo a 120 mila palestinesi. I coloni sostengono di aver comprato l’edificio. Ed è probabile che sia così. Ma il punto è che comunque quella è una presenza illegale. Perché secondo la legge israeliana non si potrebbe costituire una nuova presenza nei Territori senza prima un via libera del governo a cui spetta l’onere di garantire la sicurezza dei coloni. Vale per tutta la Cisgiordania. Figuriamoci in un posto come Hebron, dove la situazione è sempre incandescente.
Con la città del patriarca Abramo, però, nessun politico israeliano vuole scottarsi le dita. E così la questione si è trascinata fino alla Corte Suprema; che lunedì scorso ha detto quanto appariva ovvio fin dall’inizio: la Peace House va sgomberata. Ha dato anche un termine perentorio: 72 ore. I coloni non l’hanno presa proprio bene: ci sono stati scontri con l’esercito israeliano e su una moschea sono apparse scritte del tenore «Musulmani uguale maiali». Comunque – come racconta Yossi Sarid, su Haaretz – le 72 ore sono passate senza che niente succedesse. Perché sabato in sinagoga si leggeva la parasha in cui Abramo compra la tomba per sua moglie Sara proprio a Hebron. E per «festeggiarla» (ma anche per dare l’ennesima prova di forza) ventimila religiosi si sono recati alla Tomba dei patriarchi. Così il governo non se l’è sentita di far partire lo sgombero. Adesso si dice che potrebbe avvenire tra oggi e domani; e quindi i coloni hanno di nuovo chiamato a raccolta i propri sostenitori. Ma su Arutz Sheva – l’agenzia vicina al loro movimento – è comparso un articolo in cui si dice che la sentenza della Corte Suprema «autorizza» il governo, ma non lo «obbliga» a provvedere allo sgombero. Da parte sua il Jerusalem Post prova a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte: dice che la Corte Suprema avrebbe dovuto aspettare la fine dell’indagine sulla proprietà per pronunciarsi, ma comunque – per il momento – i coloni dovrebbero rispettare la sentenza e andarsene autonomamente. Come dire: mollino adesso, per poi magari ritornare domani.
Vedremo come andrà finire. Intanto, però, zitti zitti i coloni hanno incassato un’altra vittoria su un altro insediamento tra quelli considerati illegali dalla stessa legge israeliana: quello di Migron. Che è precisamente uno di quelli che la Road Map – già dal 2004 – imponeva a Israele di sgomberare. Non solo: anche su Migron c’è una sentenza della Corte Suprema israeliana che lo dice; perché è provato che qui i coloni hanno violato una proprietà palestinese. Invece il ministro della Difesa Ehud Barak – cui spetterebbe l’incarico di dare il via all’evacuazione della 45 famiglie che vivono a Migron – ha chiesto l’ennesima proroga. Spiega sempre Arutz Sheva: c’è un accordo con la Yesha per spostare le famiglie di Migron in un altro insediamento, ma ci vuole tempo. Barak dunque dice: rinviamo tutto al marzo 2009. Guarda caso dopo le elezioni del 10 febbraio. Quando Barak non sarà più ministro della Difesa. Vogliamo scommettere che con un nuovo governo ricomincerà tutto da capo e l’insediamento di Migron, nonostante la sentenza della Corte Suprema, rimarrà lì dov’è?
Clicca qui per leggere l’articolo di Yossi Sarid su Haaretz
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Clicca qui per leggere l’articolo di Arutz Sheva