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Turchia, passare dalle parole ai fatti

Camille Eid
19 settembre 2008
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La sentenza della Corte costituzionale turca, pronunciata il 30 luglio scorso, ha messo provvisoriamente fine alla crisi istituzionale in cui è sprofondata la Turchia negli ultimi mesi. La corte, lo ricordiamo, ha evitato per un solo voto la messa al bando del partito di governo Adalet ve Kalkinma Partisi (Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo), limitandosi a dimezzare i fondi pubblici che gli spettano. La «chiusura» dell’Akp avrebbe rappresentato il più duro colpo al processo di riconciliazione tra Stato laico e religione mai operato da un partito islamico nel Paese. Perché, seppure lo neghi per motivi pragmatici, l’Akp è l’ultima versione di una serie di formazioni islamiche che non hanno avuto vita facile all’ombra della laicità turca. La prima è il partito della Prosperità (Refah) piazzatosi come maggiore partito del Paese nel 1995 fino a portare il suo leader Necmettin Erbakan alla carica di premier. L’esperienza non è durata molto. Nel 1997, Erbakan è caduto sotto la pressione dell’establishment militare mentre il suo partito viene messo al bando nel gennaio successivo per ordine della Corte costituzionale. La formazione politica rinasce poco più tardi sotto il nome di partito della Virtù (Fazilet), ma raccoglie sotto la guida di Recai Kutan alle elezioni del 1999 solo il 21,3 per cento dei voti. Nel 2001, Fazilet viene a sua volta «cancellato» dai banchi del Parlamento perché accusato di promuovere attività «contrarie al principio della Repubblica laica». Dalle sue ceneri nascono due partiti: l’Akp di Recep Tayyip Erdogan, fondato ufficialmente il 14 agosto 2001, e il partito della Felicità (Saadet), decisamente più islamico, vicino all’ex premier Erbakan.

La sentenza della Corte non metterà tuttavia fine al dibattito tra le due anime del Paese sul rapporto Stato-religione. Si tratta di capire se è lecito continuare a pensare la laicità secondo il rigido canone francese, oppure aprirsi a quella laicità all’americana presentata in modo eccellente da Noah Fieldman nel suo Divided by God. La sentenza della Corte porterà comunque l’Akp ad adottare un nuovo approccio alle questioni scottanti, accantonando per qualche tempo la questione del «velo sì velo no» per proseguire sulla strada delle riforme richieste dall’Unione Europea, in primis la libertà religiosa. Nel rispondere a Bruxelles alla domanda di un parlamentare europeo su questo argomento, il ministro degli Esteri turco ha osato sostenere che la maggioranza musulmana in Turchia affronta gli stessi problemi delle minoranze non islamiche, suscitando non poche polemiche adAnkara. Ali Babacan ha detto nell’occasione che è dovere dello Stato garantire la libertà di culto a tutti i suoi cittadini, senza ingerenza o discriminazione, e che lo Stato deve mantenere la stessa distanza da tutte le religioni.

Ora che la crisi dell’Akp è rientrata sarebbe il caso di cominciare a dare concretezza a queste belle affermazioni. A partire dalla legge per le fondazioni religiose non musulmane. Detta legge era stata approvata a febbraio dal presidente Abdullah Gul, ma non è mai stata applicata «a causa del periodo difficile che sta attraversando la Turchia», come ha detto Babacan al suo omologo greco, alludendo al processo contro il suo partito. La normativa consente alle fondazioni non musulmane di accettare donazioni e procedere all’acquisto di nuove proprietà, oltre a poter collaborare con fondazioni straniere. Potranno anche dare in affitto gli edifici di quelle scuole che sono chiuse per mancanza di studenti, a causa dell’abbandono della Turchia da parte dei cristiani, e a motivo delle leggi restrittive, applicate in passato nei loro confronti.

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