Oggi è il compleanno del mondo, oggi sono chiamate a giudizio tutte le creature della terra». Così sottolinea una delle preghiere della liturgia di Rosh ha-Shanah, il Capodanno religioso ebraico che quest’anno si celebra alla fine del mese di settembre. La ricorrenza non è legata ad alcun fatto storico relativo al popolo di Israele, ma vuol ricordare la creazione del mondo, quindi il «compleanno» della Terra che – sulla base di una particolare modalità di calcolo fissata dalla tradizione – sarebbe stata creata da Dio 5769 anni fa.
Tale festa, chiamata «giorno del suono» in quanto nelle sinagoghe si suona lo Shofar, il corno di ariete o montone in ricordo della «legatura» – del sacrificio non compiuto – di Isacco (cfr Gen 22,1ss.), è menzionata anche come «giorno del giudizio» e «giorno del ricordo»: a Rosh ha-Shanah infatti Dio prende in esame il comportamento di ogni uomo, le sue opere, i suoi pensieri, i suoi rapporti con il prossimo, la sua capacità di pentimento, per decidere del suo destino nell’anno a venire, decisione che assumerà il suo carattere definitivo il giorno di Kippur, il giorno della festa del perdono, sulla base del pentimento dimostrato e dell’impegno assunto durante i dieci giorni penitenziali che intercorrono fra questi due momenti. In tale intervallo di tempo ogni uomo è invitato a ricordare le azioni compiute durante l’anno appena trascorso, in modo da poter verificare il proprio comportamento e rimediare agli errori commessi attraverso la teshuvah, il «ritorno a Dio» che implica la riconciliazione con i propri simili, presupposto indispensabile affinché anche il Signore possa perdonare «ricordando» la fede e i meriti di Abramo: il digiuno del giorno di Kippur non può ottenere il perdono divino se non si arriva a quel momento già riconciliati con il prossimo. Ma c’è di più: durante queste festività la tradizione insegna che il popolo ebraico rappresenta tutta l’umanità davanti a Dio, diventando pertanto mediatore della Sua salvezza in prospettiva universale.
Rosh ha-Shanah e Kippur, note come «feste austere», sono pertanto vissute nell’orizzonte della speranza: si sperimenta il timore del giudizio divino ma, nello stesso tempo, ci si impegna in un cammino di conversione affinché Dio possa mettere la Sua «firma buona» a favore di ogni uomo nel «libro della vita», nella consapevolezza che ciò è possibile perché Egli stesso favorisce il nostro «ritorno» a Lui in quanto la Sua misericordia prevale sulla Sua giustizia, come attestato in un noto passo profetico: «Io [Dio] non desidero la morte del malvagio, ma che il malvagio ritorni dalla sua via [di peccato e morte] e viva» (Ez 33,11). Per questo la tradizione rabbinica insiste sull’importanza del pentimento precisando che: «Le porte della preghiera ora sono aperte ora sono chiuse, ma le porte del pentimento sono sempre aperte. Come il mare è sempre accessibile, così la mano del Santo, benedetto sia, è sempre aperta per ricevere i penitenti» (Devarim Rabbah II,12); un altro commento aggiunge che è come se Dio dicesse: «Figli miei, apritemi una via al pentimento stretta appena come la cruna di ago, ed Io vi aprirò porte per cui potranno passare carri e cocchi» (Shir ha-Shirim Rabbah V,2).
È nell’orizzonte di questo modo di intendere il perdono che anche Gesù di Nazaret ha potuto esprimersi riguardo la misericordia divina e l’importanza della riconciliazione che deve precedere ogni «offerta all’altare» (cfr Mt 5,22-24).