La capitale provvisoria dell'Autorità Nazionale Palestinese, Ramallah, è una città vivace e pluralistica. Un tempo la maggioranza della sua popolazione si professava cristiana, ora invece musulmana. Restano però alcune migliaia di cristiani di vari riti e appartenenze ecclesiali. Ma chi sono i cristiani di Ramallah? Quali le loro richieste principali? Come vivono il rapporto con i musulmani e con gli ebrei? Per cercare delle risposte a queste domande abbiamo incontrato padre Aktam Hijazin, parroco della comunità di rito latino.
Ramallah, letteralmente «monte di Dio», per la sua altitudine di circa 900 metri, detta anche la «sposa della Palestina», per il suo clima temperato e accogliente. Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese; Ramallah, città dalla mentalità aperta, casa di molti espatriati, ma anche esempio di come culture e religioni diverse possono convivere in pace sotto lo stesso cielo. Ramallah è oggi a maggioranza musulmana, ma prima delle guerre arabo-israeliane erano i cristiani ad essere in maggioranza e tuttora la loro presenza è numerosa e significativa: ben cinque sono le comunità ecclesiali, ognuna con le sue istituzioni sociali e culturali, oltre ai suoi luoghi di culto.
La comunità più antica e corposa è quella ortodossa, con circa 6 mila fedeli: seguono quella cattolico-latina (3.500 fedeli), quella melchita (2 mila), quella anglicana (300) e, infine, quella luterana (250). Una comunità così grande non può non influenzare le scelte anche politiche della città oltre che i costumi e i modi di vita. L’Autorità Nazionale Palestinese tiene molto in considerazione la presenza cristiana in tutte le sue decisioni, mentre dal punto di vista economico-sociale i cristiani possiedono molte attività commerciali, da negozi a bar e ristoranti, riconoscibili dal fatto che il venerdi sono aperti e che è possibile trovarvi bevande alcoliche e carne di maiale.
Ma chi sono questi cristiani di Ramallah? Quali le loro richieste principali? Come vivono il rapporto con i musulmani e con gli ebrei? Per cercare delle risposte a queste domande abbiamo incontrato padre Aktam Hijazin, da due anni parroco della chiesa cattolica di rito latino. «In primo luogo noi siamo palestinesi» ci tiene a precisare immediatamente «poi arabi e poi cristiani. Questo significa che il rapporto con gli occupanti non è migliore di quello che hanno i palestinesi musulmani. Ma il problema non è con gli ebrei, il problema è con gli israeliani, in quanto occupanti. Qui, come in tutta la Cisgiordania, i rapporti tra le tre religioni sono distesi». Come esempio della buona convivenza padre Hijazin ci racconta cosa succede durante il Ramadan, che quest’anno sarà celebrato a settembre: «Una sera del mese sacro dei musulmani la nostra Chiesa offre una cena, a cui invitiamo i nostri studenti musulmani, che sono il 45 per cento del totale, i professori e tutta la comunità per festeggiare insieme».
Per i cristiani di rito latino viene celebrata una messa quodiana, cui prende parte, mediamente, una cinquantina di persone tra giovani e anziani, mentre la domenica le messe sono due, perché qui è un giorno lavorativo e i cristiani che lavorano non potrebbero altrimenti celebarare il loro giorno di preghiera. Oltre al servizio religioso la chiesa cerca di dare un sostegno morale ed economico ai suoi fedeli che «ci chiedono soprattutto solidarietà contro l’occupazione», ci informa padre Hijazin «e di essere con loro nella resistenza ma anche di aiutarli nella vita pratica, nella ricerca dell’alloggio e del lavoro».
Con padre Aktam affrontiamo il tema caldo di questi mesi e cioè la tensione molto alta tra le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah, palpabile anche qui a Ramallah. La comunità cristiana non ha paura di Hamas, anzi, «molti di noi hanno anche votato questo partito perché Fatah era considerato il partito della corruzione. Poi abbiamo visto che Hamas non ha abbandonato il suo fanatismo, e questo ci ha delusi», nota con amarezza il parroco.