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Banche e Corano

08/08/2008  |  Milano
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Banche e Corano
Lo sportello di un istituto di credito a Kuwait City, una delle città più prospere del Golfo Arabico.

La finanza islamica sta crescendo ad un ritmo vertiginoso. Uno sviluppo dovuto alla grande disponibilità di denaro liquido nei Paesi produttori di petrolio e all'allargamento della base economica nel mondo musulmano. Di qui l'esigenza di nuovi prodotti finanziari «etici», (cioè rispettosi del Corano), ma guardati con interesse anche dalle banche occidentali. Un fenomeno che tocca ormai diversi Paesi dell'Occidente, dove stanno nascendo anche istituti di credito islamici. Al fiorire della finanza islamica Terrasanta di luglio-agosto 2008 ha dedicato una lunga inchiesta (E l'islam finisce in banca) firmata da Carlo Giorgi, dove appare con chiarezza come l'economia segua strade diverse da quelle della politica ufficiale.


La finanza islamica sta crescendo ad un ritmo vertiginoso. Uno sviluppo dovuto alla grande disponibilità di denaro liquido nei Paesi produttori di petrolio e all’allargamento della base economica nel mondo musulmano. Di qui l’esigenza di nuovi prodotti finanziari «etici», (cioè rispettosi del Corano), ma guardati con interesse anche dalle banche occidentali. Un fenomeno che tocca ormai diversi Paesi dell’Occidente, dove stanno nascendo anche istituti di credito islamici.

Al fiorire della finanza islamica Terrasanta di luglio-agosto 2008 ha dedicato una lunga inchiesta (E l’islam finisce in banca) firmata da Carlo Giorgi, dove appare con chiarezza come l’economia segua strade diverse da quelle della politica ufficiale.

Ketty Ussher è sotto segretario al ministero del Tesoro britannico: «Voglio che Londra diventi lo snodo mondiale della finanza islamica», ha sostenuto l’8 luglio scorso aprendo a Londra i lavori del primo meeting annuale della Conferenza mondiale delle banche islamiche, a cui hanno partecipato mille delegati da più di 35 Paesi del mondo, contro i soli 120 partecipanti della prima edizione della conferenza, nel 1993.

La Gran Bretagna – spiega l’inchiesta – non è l’unica nazione occidentale a spalancare le braccia alla finanza islamica; ad aprile, la Munich Re, colosso tedesco delle assicurazioni, secondo al mondo per dimensioni, ha annunciato l’obiettivo di controllare, entro 5 anni, il 20 per cento del mercato globale delle assicurazioni islamiche. La Japan bank for International cooperation, la maggiore banca governativa internazionale giapponese, ha annunciato che appena avrà la possibilità normativa per farlo, pubblicherà la sua prima emissione di titoli islamici. In Italia, ad ottobre, all’Università la Sapienza di Roma partirà il primo master in finanza islamica. E presto, per interessamento di alcuni banchieri del Barhain, dovrebbe nascere la prima banca islamica italiana.

La finanza islamica è la novità economica mondiale degli ultimi anni: secondo la banca d’affari Standard & Poor’s, infatti, oggi le risorse gestite dal mondo finanziario, in coerenza con la sharia, sono di 750 miliardi di dollari. L’attività bancaria islamica ad un tasso di crescita del 20 per cento annuo. I fondi che si ispirano ai precetti islamici sono circa 500 e, nel 2010, saranno almeno mille. Il mercato delle obbligazioni islamiche, dette Sukuk, ha toccato gli 80 miliardi di dollari (al 90 per cento nei mercati del Medio Oriente e della Malesia; il resto nei Paesi Occidentali e in quelli emergenti). E le assicurazioni islamiche, le cosiddette Takaful, oggi raccolgono investimenti per 2 miliardi di dollari, che raddoppieranno entro il 2010.

A cosa si deve questa incredibile crescita? A due fattori principalmente: innanzitutto, all’afflusso di un inarrestabile fiume di denaro a riempire le casse dei Paesi arabi produttori di petrolio; cascata divenuta strabordante a causa della crescita del prezzo del greggio. Secondo un’altra banca d’affari, Ernst & Young, il 10-20 per cento degli investitori islamici muove dai 400 mila ai 4 milioni di dollari. Soldi che letteralmente gli emiri arabi non sanno più dove mettere; e che richiedono sempre più numerosi «strumenti finanziari» capaci di farli fruttare. Il secondo fattore di successo della finanza islamica è l’immigrazione: da Magreb, Turchia, Pakistan, Africa sub-sahariana centinaia di migliaia di persone sono partite e partono verso l’Europa e gli Stati Uniti, con un tenace desiderio di affermarsi economicamente. Sono loro il grosso degli investitori islamici (l’80-90 per cento del totale), con a disposizione dai 60 mila ai 400 mila dollari procapite. Un tesoro – petrodollari e imprese degli immigrati musulmani – che ha portato anche il mondo economico occidentale ad aprirsi alla sharia. Nella prospettiva, in un futuro molto prossimo, di veder spuntare banche islamiche a Londra (che però ne ha già 5), Parigi, Roma e Berlino.

Ma il vero segreto del successo della finanza islamica è un altro e si chiama «intensità culturale»: a spiegarlo è Lachemi Siagh, economista di origini arabe ma di formazione occidentale, autore del libro L’Islam e il mondo degli affari, da poco pubblicato anche in Italia (Etas Edizioni, p. 260, 23 euro). Secondo Lachemi, in un Paese islamico non può esistere una finanza separata, laica, priva delle radici dell’islam; perché l’islam diffonde, nei Paesi che fanno tesoro della sua tradizione, una tale «intensità culturale», una così diffusa – anche se invisibile – influenza sui costumi, la mentalità e i comportamenti…

Di qui la nascita di istituti finanziari ispirati al Corano, che offrono ai fedeli musulmani un’alternativa «etica» alla finanza eminentemente speculativa (e quindi immorale) dell’Occidente.

Insomma: le banche come una forma di presidio sociale, come uno strumento di «contaminazione culturale» dei Paesi non musulmani, come testa di ponte di una visione del mondo e dell’uomo? Siamo agli inizi, ma la strada imboccata sembra questa.

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