Se le radici di un albero sono sane, tutto l’albero è sano. Più le radici sono profonde e più alto può crescere l’albero. Bisogna però ricordare che le radici e i frutti di un albero, benché indivisi, sono due cose diverse.
Le radici della fede cristiana si trovano nella Bibbia e nel giudaismo. Per questo motivo dobbiamo vedere come l’ebreo faceva l’esperienza di Dio nella Terra Santa, specialmente nel Tempio, dove Dio era presente. Il pellegrinaggio, prima di essere un’esperienza cristiana, è stata un’esperienza giudaica. Tre volte all’anno tutti i maschi dovevano salire a Gerusalemme, non solo per vedere Dio, ma anche per essere visti dal Signore. Gli ebrei, eccetto quelli della Giudea, compivano il pellegrinaggio a Gerusalemme non tre volte, ma forse una o due volte l’anno; quelli appartenenti alla Diaspora venivano generalmente solo per la Pentecoste. Anche se la Bibbia poneva l’obbligo solo per i maschi, di fatto venivano le famiglie intere. Sotto l’influsso del mondo ellenistico, e poi del mondo romano, il giudaismo ha dovuto aprirsi e dare un posto anche alla donna ebrea.
Il pellegrino doveva camminare (il pellegrinaggio si chiamava in ebraico regalim, da regel = il piede) cinque giorni se veniva dalla Galilea, un giorno se veniva dalla Giudea. I pellegrini di Galilea si radunavano tutti sulla piazza del villaggio, per poi partire assieme. Camminavano lungo il Giordano, per avere possibilità di lavarsi e per evitare i Samaritani. A Gerico tutti si ritrovavano assieme e facevano la salita a Gerusalemme cantando i Salmi graduali o Salmi delle ascensioni. Il pellegrinaggio era chiamato ‘aliyah (salita), una salita geografica accompagnata da una salita spirituale.
Arrivati a Gerusalemme, prima di poter salire al Tempio, era d’obbligo il bagno rituale. «Chi può salire sul monte del Signore? Chi ha le mani innocenti e il cuore puro» (Sal 24, 3-4). Tutto intorno al Tempio c’erano luoghi per i bagni rituali, e sono stati ritrovati dagli archeologi. L’esperienza di purificazione fa parte del pellegrinaggio. Già Giovanni Battista, il Precursore del Messia, «lavava» i pellegrini nel fiume Giordano. Il profeta Ezechiele aveva annunciato che l’alleanza nuova sarebbe cominciata con la purificazione. Dopo la purificazione, il pellegrino comprava una bestia per poterla offrire in sacrificio. Esistevano diversi tipi di sacrifici: sacrifici per le partorienti, sacrifici per il peccato, sacrifici di comunione. Ognuno era tenuto a pagare la tassa del Tempio e a versare la decima del suo raccolto.
Di più: il pellegrino era condotto verso un’educazione al silenzio. Nel Tempio di Gerusalemme c’era il mercato, sotto il portico di Salomone, e le di scussioni venivano condotte nei diversi cortili. Ma, più uno si avvicinava all’atrio degli uomini e all’altare, più veniva condotto a fare «esperienza del silenzio». Il silenzio era totale nel Santo e nel Santo dei Santi.
L’esperienza del Tempio di Gerusalemme era anche esperienza della notte. L’unico Tempio al mondo completamente privo di statue era quello di Gerusalemme. Nonostante questo, il pellegrino voleva vedere il volto di Dio. Nel Santo dei Santi c’era il buio. Dio rimane il Tutt’Altro. Chi voleva fare l’esperienza di Dio veniva rimandato al fratello. Ciononostante, i sacerdoti, durante i pellegrinaggi, aprivano le tende davanti al Santo del Tempio per permettere ai pellegrini di vedere le decorazioni sui muri, dove erano rappresentati i cherubini che si guardavano in faccia coprendosi con le ali.
La catechesi che si dava al pellegrino ricordava che ogni uomo è un Tempio. Paolo parla del Tempio del corpo in 1Cor 6, 19. Nella testa, che ha sette aperture, ogni uomo porta la Menorah (il candelabro dalle sette braccia – ndr). Deve portare la luce di Dio agli altri. Deve imparare a sorridere. Il pellegrino è colui che ha riscoperto la gioia. La catechesi di Pasqua ricordava le quattro notti della salvezza: la notte della creazione del mondo, la notte del sacrificio di Isacco, la notte dell’uscita dall’Egitto e la notte della venuta del Messia. Questa teologia della notte è, di fatto, la teologia della speranza. Dio interviene all’ultimo momento, quando gli uomini pensano che non ci sia più speranza.
La catechesi della festa di Pentecoste ricordava che la Legge fu data al popolo nel deserto e non nella terra d’Israele. Questo significa che, data nel deserto-terra di nessuno, la legge non può essere privatizzata da alcuno. Nessuno ha il diritto di dire che la legge è sua o che la sua interpretazione è l’unica. Dio rimane padrone della sua parola, che ha affidato agli uomini in settanta lingue, cioè l’ha affidata a tutti i popoli.
La catechesi della festa delle Capanne (Sukkot) era più ricca: ciascuno doveva abitare sotto le tende (le capanne) per il tempo di una settimana, e fare memoria che il popolo uscito dall’Egitto non aveva qui una dimora stabile e fissa. Il pellegrino doveva prendere un ramo di palma, un limone (etrog), un ramo di salice e un ramo di mirto. Questi oggetti simbolici, alcuni profumati, altri senza profumo, ricordavano la comunione dei santi. C’è chi studia e fa buone opere, e c’è chi non studia e non fa buone opere. Ma Dio considera il suo popolo assieme. Il profumo degli uni passa sugli altri. Di più, ciascuno porta in se stesso la sua palma e il suo etrog. La palma corrisponde alla spina dorsale e l’etrog profumato è il cuore. Il pellegrino viene invitato a fare un esame di coscienza: i suoi pensieri e il suo cuore devono essere buoni se vuole salire sulla montagna del Signore.
«Essere visti dal Signore», l’espressione adoperata per il pellegrinaggio, significa anche essere giudicati da Dio (Rosh Ha-Shana 11a). Dio decide quanto grano darà a Israele per la Pa squa, quanta frutta a Pentecoste e quanta pioggia a Sukkot. Tutto dipende dalla condotta morale dei pellegrini. Vedere Dio significa anche essere visti da Lui.
I sacerdoti nel Tempio erano divisi in 24 classi e ogni classe faceva solo due settimane di servizio. I sacerdoti di servizio abitavano per una settimana nel Tempio, nella sala del focolare. La mattina, prima del sorgere del sole, recitavano le preghiere, poi gettavano le sorti per la suddivisione del lavoro. La cerimonia più importante di ogni mattina era l’offerta dell’agnello: il sacrificio veniva chiamato Tamid (perpetuo). L’agnello maschio, di un anno, senza difetti, rappresentava una piccola pasqua quotidiana. La teologia popolare affermava che chi assisteva al sacrificio dell’agnello era ricreato, rigenerato, e somigliava ad un bambino neonato di un anno. I suoi peccati erano cancellati. La teologia della rinascita sarà ripresa dai cristiani, nella prima lettera di Pietro in particolare, per definire il battesimo, celebrato a Pasqua.
Dopo aver offerto il sacrificio (Tamid), il sacerdote era a di sposizione dei fedeli sia per offrire sacrifici, che per spiegare la legge; spiegazioni che si tenevano sotto il portico di Salomone. Il sacerdote ebreo era prima di tutto l’esperto nella parola di Dio, che egli doveva essere capace di spiegare.
I sommi sacerdoti erano scelti tra le famiglie più ricche. I romani vendevano la funzione a chi pagava di più, per la durata di un anno. Essi tenevano anche sotto chiave i vestiti del sommo sacerdote alla fortezza Antonia. Se facevano politica li minacciavano di non dare loro le vesti per la festa di Kippur. Un testo del Talmud ricorda che – sotto il sacerdote Simone il giusto – le celebrazioni venivano fatte sempre secondo le norme.
Abbiamo però molti testi che ricordano che le famiglie dei sommi sacerdoti erano corrotte: cercavano solo di arricchirsi e non si preoccupavano molto della formazione religiosa del popolo. Di fatto alcuni laici accompagnavano i preti durante le settimane di servizio, digiunando quasi tutta la settimana e meditando su Genesi 1: essi erano chiamati i ma’amadot. Ben presto nel mondo ebraico nascerà una nuova istituzione, la Sinagoga, conosciuta all’inizio come casa di studio e di riunione, dove la presenza del sacerdote non era necessaria. I laici, colpiti dalla poca devozione dei sacerdoti al Tempio, si organizzarono in modo da riunirsi sia al Tempio sia nelle sinagoghe all’ora dell’offerta dei sacrifici. Anche le sinagoghe si chiamarono ma’amadot: qui i laici si univano all’offerta dei sacrifici con preghiere, digiuni e meditazioni sui testi della Creazione.
Il Tempio veniva chiamato «Libano» (bianco), perché era il posto dove i peccati erano rimessi da Dio. Il monte Moriah ricordava, fra l’altro, il sacrificio di Isacco, con la ricca teologia della Aqedah che si trova nella versione sinagogale di Gen 22. Era considerato il luogo della creazione di Adamo e della sua sepoltura. Ricordava la scala di Giacobbe, l’esodo d’Egitto, perché nel Santo dei Santi c’era l’arca dell’alleanza, l’acqua del pozzo di Myriam e la manna, accanto al bastone di Aronne. Visitare il Tempio significava meditare su tutta la storia della salvezza: creazione di Adamo, sacrificio di Isacco, ed Esodo. Era anche un’anticipazione del Tempio celeste.
Il sommo sacerdote quando si presentava davanti a Dio portava sul suo cuore il pettorale con dodici pietre per ricordare i dodici figli di Israele. Sul suo mantello portava, in basso, 70 campanelli per ricordare i 70 popoli del mondo. Il sacerdozio era un servizio per gli altri.
L’ospitalità era un dovere sacro. Alcuni pellegrini trovavano da alloggiare nelle loro famiglie d’origine o presso amici. La maggioranza bivaccava fuori dalle mura, ma sempre dentro il recinto della città che per l’occasione inglobava Betfage e Betania. Molti aspettavano i pellegrini, perché ricevevano in cambio dell’ospitalità qualche regalo, o prodotto tipico del paese d’origine del pellegrino.
Le radici della nostra fede si trovano nel giudaismo. Ogni pellegrinaggio deve essere allora un’occasione per ritrovare queste radici, con la ricchezza della parola di Dio (che deve essere commentata perché ha 70 significati), con il senso giudaico della preghiera e del primato di Dio nella vita quotidiana. Per queste ragione è importante preparare i futuri pellegrini attraverso una lettura biblica seria. I circoli biblici e le settimane bibliche si vanno diffondendo. Anche dopo il viaggio in Terra Santa, la lettura della Bibbia deve rimanere il frutto più bello del pellegrinaggio.