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Gli ebrei che credono in Gesù

Elisa Pinna
17 luglio 2008
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Gli ebrei che credono in Gesù
Gerusalemme. Ebrei in preghiera al Muro occidentale.

Sono probabilmente mezzo milione in tutto il mondo, 15 mila solo in Israele. Leggono il Vangelo e spezzano il pane, ma non vogliono essere confusi con i cristiani. Sono gli ebrei messianici.


Ogni venerdì sera, Ruben Pinkas  festeggia, nel suo piccolo appartamento  a  Golders Green nel Nord di Londra,  l’ora del Kiddush, la preghiera di consacrazione che avvia il giorno del riposo. «Shabbath  Shalom», augura alla moglie, mentre  tira fuori del pane da una busta del supermercato e lo spezza  per sé e per lei. I gesti sono quelli di una famiglia tradizionale ebrea; ma per loro c’è qualcosa di più; il kiddush non è solo la consacrazione del settimo giorno e dei prodotti della terra.  Il pane e il vino, ai loro occhi, hanno acquistato un significato nuovo: non disse infatti  Yeshua, «io sono la vera vite, io sono il pane della terra»?

Pinkas  è ebreo  ma crede che Yeshua, così  lui chiama Gesù, sia  il messia atteso dal suo popolo, il salvatore annunciato dalle profezie dell’Antico Testamento. Fa parte di una galassia sconosciuta al grande pubblico, quella degli ebrei messianici, un movimento dalle mille sfaccettature che è riemerso con prepotenza, negli ultimi decenni, dalle profondità della storia. Gli ebrei messianici si richiamano ai primi  discepoli ebrei  di Gesù, di Ye shua.  Non vogliono essere confusi con gli ebrei convertiti al cristianesimo, che pure esistono e sono una realtà piccola ma molto significativa, quasi l’espressione fisica dell’unità tra due fedi. Gli ebrei messianici leggono invece  i Vangeli in una chiave tutta  interna alla cultura giudaica e  ritengono il cristianesimo una sorta di eresia posticcia e paganizzante degli insegnamenti del Messia, annunciato dalla Torah.

Pinkas, uno studioso che partecipa a Londra al primo incontro pubblico tra ebrei ortodossi ed ebrei messianici della diaspora,   ricorda che il cristianesimo delle origini, nato tra i gentili di Antiochia, era ancora considerato una setta ebraica, e sottoposto dai romani al pagamento delle «tasse per gli ebrei». Solo nel tempo esso si è staccato dall’ebraismo fino a tagliare tutti i ponti, nel 325, con il concilio di Nicea che proibì l’osservanza dello Shabbath e dei riti ebraici.  Molti ritengono che l’ebraismo messianico, ancora presente ai tempi di Paolo, sia scomparso nel IV secolo, dopo la svolta di Nicea, anche se, afferma Pinkas,  ci sono tracce di persecuzioni contro gli ebrei messianici da parte della Chiesa cattolica nel dodicesimo e tredicesimo secolo. Nel diciannovesimo secolo, a Londra, in Russia, in Ungheria, avvengono isolati tentativi di creare comunità di ebrei messianici attorno a sinagoghe locali che però si spengono con i loro leader. Ancora per  la maggior parte del ventesimo secolo, gli ebrei che riconoscono Gesù come il loro Messia finiscono per convertirsi al cristianesimo, sopratutto a quello protestante e sionista che vede, nella nascita di uno Stato ebraico, una condizione per il ritorno di Dio sulla terra. È solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, che il giudaismo messianico riparte come movimento distinto e indipendente da qualsiasi connotazione cristiana.

Le prime sinagoghe messianiche vengono costruite negli Stati Uniti, a Filadelfia, e Wa shington. Le diverse comunità si raccordano nell’Unione delle Congregazioni messianiche ebraiche. Nella propria carta base l’Unione definisce l’ebraismo messianico come «un movimento di congregazioni e gruppi fedeli a Yeshua il Messia che assumono la responsabilità, nell’ambito dell’Antica Alleanza, di una vita ebraica e di una identità radicata nella Torah, espressa nella tradizione, e rinnovata e applicata nel contesto della Nuova Alleanza».

Come molti altri movimenti religiosi comparsi sulla scena alla fine del Novecento, anche gli ebrei messianici hanno registrato una crescita straordinaria. Le cifre variano a seconda delle fonti e manca, in realtà, un registro ufficiale di tutte le organizzazioni ebraiche che riconoscono Yeshua come Messia. Qualcuno parla di 350 mila ebrei messianici, altri di 500 mila, in tutto il mondo; 15 mila in Israele, dove si contano circa 80 comunità, per lo più sulle colline della Galilea

L’ebraismo messianico non ha un «papa», ed è molto variegato per quanto riguarda la teologia e la liturgia. I tratti comuni sono la fede in Yeshua, come il Messia, e un grande rispetto per i comandamenti, sebbene l’osservanza della Torah differisca da congregazione a congregazione. La croce nei loro culti non compare mai: evoca un passato troppo vicino e doloroso. «Nella memoria – spiega Pinkas – ci sono le persecuzioni che abbiamo sofferto ad opera della Chiesa; la croce è simbolo di uccisioni, di sofferenze. Ha un significato troppo forte per la nostra sensibilità».

Ogni comunità ha un proprio modo di esprimersi. A Gerusalemme vi sono ad esempio ebrei che si riuniscono ogni sabato in una chiesa anglicana e pregano e cantano in uno stile molto simile a quello dei carismatici nord-americani, tra sventolii di bandiere con la stella di David e Alleluja ritmati con le braccia levate. Altri riproducono invece, in modo stretto, l’atmosfera della sinagoga, come nella comunità di Netiviah nel quartiere di Rehavia. Ci sono poi anche i messianici millenaristi, come i fedeli della comunità guidata da Gershon Nehel, che gestisce un villaggio turistico nel nord della Galilea e che vivono come se la fine dei tempi fosse già cominciata.

I diversi gruppi messianici rappresentano tuttavia per gli ebrei tradizionalisti un unico pericolo, senza sfumature o distinguo: il giudaismo classico vede in loro solo dei traditori e dei nemici pronti a colpire alla schiena in casa o in sinagoga: dei missionari camuffati da «fratelli» che cercano di convertire il popolo eletto al cristianesimo. Più l’ebraismo messianico si diffonde, più si rafforzano i sentimenti di ostilità e odio tra i tradizionalisti.

La riunione di Londra, dove, tra centinaia di messianici e rabbini abbiamo incontrato anche Pinkas, ne è una testimonianza. «Gli ebrei hanno eletto la sinagoga come un muro di protezione da altre assimilazioni, o possibili interpretazioni diverse della Legge. Non si può stare a cavallo di quel muro. L’ebreo che riconosce Gesù come un messia faccia un passo in più, vada dall’altra parte del muro e abbandoni il giudaismo», tuona il rabbino statunitense Shmuley Boteach, dal palco della Friends Meeting House di Euston Road. L’atmosfera è carica di tensione: le parti si rimproverano a gran voce di aver tradito il Dio di Abramo e Mosè, di non averlo capito. L’incontro non fuga le diffidenze reciproche e le strette di mano finali non avvicinano le posizioni. Se in Europa e in Nord America, le due comunità religiose finiscono per ignorarsi a vicenda, diverso il discorso diviene per i gruppi messianici che, sempre più numerosi, scelgono di vivere in Israele. «Quando in Europa, gli ebrei dicevano “noi crediamo in Gesù”, era un biglietto d’ingresso; quando in Israele noi diciamo “credo in Gesù” è un biglietto d’uscita dallo Stato ebraico», sintetizza Michael Brown, esponente di spicco del messianesimo nordamericano.

Fino a qualche mese fa, i mes sianici erano trat  tati in Israele da «estranei», emarginati, oggetto di minacce verbali, per la loro presunta attività missionaria cristiana. Il 21 marzo 2008, gruppi di oltranzisti ortodossi ebraici sono passati all’azione. Sfruttando crudelmente l’atmosfera del Purim (il carnevale ebraico) qualcuno ha lasciato all’ingresso dell’abitazione della famiglia Ortiz, ebrei messianici statunitensi rientrati nel villaggio-colonia di Ariel in Cisgiordania, quello che sembrava essere un normale pacco-dono contenente dolciumi. Quando però il quindicenne Amiel l’ha aperto, è stato investito da una fortissima esplosione che gli ha provocato gravi ferite in tutto il corpo. Appena due mesi dopo, il 20 maggio, nella cittadina di Or Yehuda, presso Tel Aviv, il vicesindaco Yehuda Uzi Aharon, un ebreo ortodosso sefardita, alla testa di un gruppo di allievi di un collegio rabbinico locale ha dato alle fiamme nella pubblica piazza testi del vecchio e del nuovo testamento razziati nelle case di famiglie messianiche. Le immagini delle ceneri fumanti hanno provocato indignazione in parte dell’opinione pubblica israeliana e qualcuno ha rievocato i roghi di libri compiuti dai nazisti e le parole profetiche del poeta ottocentesco tedesco (ed ebreo) Heinrich Heine secondo cui «quando si arriva a bruciare libri, poi si bruciano anche esseri umani».

Tuttavia, di fronte a quest’episodio, il governo israeliano si è celato dietro al silenzio.

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