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Cairo cristiano

Aristide Malnati
17 luglio 2008
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Cairo cristiano
Fedeli in preghiera all'interno della «Sospesa», nel quartiere cristiano del Cairo.

Il quartiere copto della capitale egiziana è situato sull'area dove un tempo si elevava la fortezza romana. Ricco di arte e di tesori, è testimone di una millenaria storia di fede


Man mano che lo sgangherato taxi bianco e nero, zigzagando tra i numerosi passanti e i mille carretti degli zaballin (gli umili spazzini del Cairo), si avvicina al quartiere di Mar Girgis, la voce dei muezzin, ripetuto l’incitamento alla preghiera dell’alba, si attenua e rimane un flebile sfondo ai ritmati rintocchi delle campane. I simboli perenni della religione cristiana, fin da subito presente in riva al Nilo e ricordata ancora oggi nella capitale egiziana da chiese antichissime, la fanno da padrona nel quartiere copto di San Giorgio (Mar Girgis, appunto), anima e cuore del cristianesimo nel Paese dei faraoni.

Il tassista, alternando buffamente arabo e inglese, ci ricorda che i cristiani-copti – gruppo religioso, a cui lui, come oltre il 10 per cento degli egiziani, appartiene – sono i reali discendenti dei grandi del passato, degli immortali faraoni, simbolo ancora tangibile della millenaria storia d’Egitto grazie a imperituri monumenti. E che i copti, unendosi unicamente tra di loro, hanno mantenuto «inalterata e pura» la nobile stirpe degli egizi «preservandola dalla contaminazione islamica», iniziata dal 641 d. C.

Al di là degli eccessi dei singoli, il rispetto reciproco e interreligioso in nome di un unico Egitto – umm el donya («madre del mondo», o ancora meglio «madre della civiltà occidentale») è ampiamente palpabile, garantito dalla moderazione e dall’intelligenza dei suoi abitanti. Un rispetto percepibile al massimo grado proprio nei quartieri cairoti, simbolo delle due religioni monoteiste rivelate: quello della Cittadella e delle moschee per i musulmani; San Giorgio appunto per i cristiani.

La visita a un quartiere tanto carico di storia non può che iniziare dall’omonima chiesa e convento di San Giorgio, in realtà curiosamente territorio greco per la propria natura di chiesa greco-ortodossa, addirittura sede del patriarcato di questa confessione al Cairo. Si tratta di un imponente edificio, di rilevanti dimensioni, che in ogni caso conserva una certa sobrietà di fondo, in quanto la maestosità è spezzata e quasi mortificata dalla posizione appartata, circondata da altre costruzioni di notevole stazza. San Giorgio si presenta a pianta circolare e ha una lunga storia di rifacimenti, culminanti nella ricostruzione del 1909 in seguito a un devastante incendio: quasi tutto venne rifatto, tranne un’ala originaria del X secolo, ancora oggi visibile.

Quasi a imprimere una maggior vivacità all’accoglienza dei pellegrini – vivacità, che contrasta con la sobrietà quasi burbera dei monaci greco-ortodossi – si sbracciano due religiosi nell’invitare alla preghiera i fedeli all’interno della chiesa della Moallaqa («la sospesa»), chiamata così per la sua posizione sopraelevata rispetto al piano calpestato e quasi dominante. Eretta nel VII secolo, la «sospesa» (che è anche chiesa metropolitana di Santa Maria) offre al visitatore un’atmosfera di religiosità poco raccolta e quasi trionfale, suggerita con insistenza dalla vivacità cromatica delle decorazioni, dai colori intensi e dai pregnanti profumi di incenso: all’interno, tra le navate irregolari, è conservato un ambone bianco e nero del 1100, tra i più belli del cristianesimo del Vicino Oriente (nelle chiese l’ambone è la struttura sopraelevata, dalla quale vengono proclamate le letture: una sorta di tribuna); e pareti in legno di cedro, ebano e noce del X secolo (i cosiddetti hayka), che hanno a un tempo funzione strutturale e decorativa, volta alla pompa e all’esaltazione del sacro.

Ci spingiamo all’interno del quartiere copto, lungo un percorso quasi obbligato, tra abitazioni riservate a fedeli o a officianti del culto, vivacizzate da un vociare irregolare e da cantilene più ordinate e melodiose, preghiere di adorazione, veri e propri inni di lode al Signore. Ed è così, che di fronte a un negozietto di souvenir a carattere sacro, siamo catturati dalle chiesette di San Sergio e Santa Barbara: più raccolte delle precedenti, anche perché inserite nell’angusto spazio delle mura interne, invitano più che all’intensità delle lodi e dell’adorazione al raccoglimento della meditazione. Qui nutriti gruppi di fedeli, rispettando in file ordinate il proprio turno, si sottopongono al «rito della catena», in virtù del quale, circondando il proprio capo con una catena, si legano con devozione al santo ricevendo benedizione propizia.

San Sergio rimanda invece con la sua origine millenaria ai Vangeli apocrifi egizi, che raccontano che proprio questo punto offrì rifugio alla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto (episodio trascurato dai testi canonici). Dedicata ai soldati martiri Sergio e Bacco, la chiesa fu edificata attorno al 400 d. C., risultato e testimonianza di una tradizione viva e consolidata (addirittura la cripta, coeva al corpo principale, sorge su una precedente ecclesìa del II secolo, di cui resta qualche preziosa ed estemporanea traccia).Santa Barbara è poco distante, in una zona con un minor numero di abitazioni, ma dove cospicui gruppi di fedeli convergono per le orazioni di rito, vissute ogni volta con rinnovate religiosità e partecipazione. Risale anche Santa Barbara all’anno 400 circa e rimanda a storie di martìri e di primi eroici «atleti di Dio»; tra essi proprio Santa Barbara, agiata figlia di un ricco mercante pagano dell’Asia Minore, che scelse di seguire gli insegnamenti di Gesù e per essi sacrificò la propria vita. Poco rimane dei cimeli storici, ma anche all’occhio poco esercitato di un visitatore occasionale non può sfuggire la splendida iconostasi del XIII secolo, con incrostazioni d’avorio scolpito (l’iconostasi è la parete divisoria decorata con delle icone che separa la navata delle chiese ortodosse dal presbiterio, dove viene consacrata l’eucarestia).

Il percorso sul filo di una religiosità secolare e testimoniata con rinnovata intensità si snoda tra piccole arterie, rallegrate dal disordinato vociare di giovani e non più giovani e culmina nella Sinagoga di Ben Ezra, la Genizah medievale del Cairo: la sua presenza vuole significare un esempio sublime, per posizione e per storia secolare, di tolleranza verso il diverso e di armoniosa fusione di confessioni spesso in attrito, ma desiderose nei loro rappresentanti più illuminati di trovare comuni convergenze, nella consapevolezza di una comune origine. Inoltre il punto in cui sorge questa antica sinagoga, era ritenuto sacro già dalle prime comunità ebraiche, perché lì a Mosé assorto in preghiera sarebbe apparso il Profeta Elia; la struttura religiosa passò per qualche secolo ai cristiani (dedicata a San Michele, vi si officiò il rito melchita) per tornare alla comunità ebraica e costituirne la Genizah (il deposito dei libri sacri ebraici). Il tempio è stato restaurato grazie a un capillare restauro, voluto dallo stesso presidente Mubarak come segno concreto di distensione nei confronti di Israele.

La visita all’antica Sinagoga costituisce il culmine di un percorso a ritroso nel tempo sul filo delle tre grandi religioni del Libro, qui, nel cuore del Vecchio Cairo, rappresentate da vestigia confinanti a testimonianza di un comune sentimento di appartenenza che è il tessuto connettivo di gran parte delle società del Medio Oriente.

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