L'altra sera a Gerusalemme è stato inaugurato il «Ponte delle corde», la grandiosa struttura progettata dal celebre architetto spagnolo Santiago Calatrava che dovrebbe rappresentare la moderna porta di accesso da ovest alla città. Un ponte nato in funzione del metro leggero che vi passerà sopra quando, finalmente, entrerà in funzione (dopo numerosi rinvii ora si parla del 2010). Ma l'opera di Calatrava in Israele è diventata soprattutto un'occasione per tornare a discutere sull'identità di Gerusalemme.
L’altra sera a Gerusalemme è stato inaugurato il «Ponte delle corde», la grandiosa struttura progettata dal celebre architetto spagnolo Santiago Calatrava che dovrebbe rappresentare la moderna porta di accesso da ovest alla città. Un ponte nato in funzione del metro leggero che vi passerà sopra quando, finalmente, entrerà in funzione (dopo numerosi rinvii ora si parla del 2010). Ma l’opera di Calatrava in Israele è diventata soprattutto un’occasione per tornare a discutere sull’identità di Gerusalemme.
Su Haaretz, ad esempio, Meron Benvenisti sottolinea oggi l’intento simbolico di questa struttura (un ponte normale – spiega – sarebbe costato dieci volte di meno). Quello di Calatrava è il monumento di una città che – dopo la follia dell’espansione dei quartieri ebraici nell’ormai satura Gerusalemme Est – torna a guardare a ovest. Una città che per motivi politici ha avuto negli ultimi quarant’anni un’«espansione mostruosa e stupida» («un paragone – scrive Benevenisti -: Gerusalemme si estende su 124 chilometri quadrati e ha 700 mila abitanti; Parigi occupa 105 chilometri quadrati, ma i suoi abitanti sono 2 milioni e 200 mila»).
Soprattutto, però, per Benvenisti il ponte oggi per Gerusalemme è un monumento nel cui messaggio non crede nessuno. Perché il vero monumento rappresentativo della città sta a est, ed è il muro di separazione con i Territori palestinesi. «Non un ottimista ed elegante cavalcavia, ma un muro brutale e opaco, che divide i vicini e i parenti esprimendo tutto il pessimismo che circonda oggi le possibilità di arrivare a relazioni ragionevoli tra due gruppi etnici».
Su Yediot Aharonot è invece Jackie Levy a dare voce alle perplessità. «Il ponte è quel tipo di bene di lusso che si regala a qualcuno che ha già tutto», commenta. Invece Gerusalemme – secondo Levy – è una città che non ha progetti sul suo futuro: manca lavoro, i giovani se ne vanno, le strade sono trascurate e sporche. «Chi costruisce un ponte così – è la conclusione – non è molto differente da quei genitori che crescono dei figli sporchi, annoiati e maleducati, ma poi si comprano una nuova macchina sportiva».
Vere o sbagliate che siano queste critiche – anche quando fu costruita la Tour Eiffel a Parigi si leggevano articoli del genere – una cosa è certa: il ponte di Calatrava alla fine ha riproposto il vero nodo della Gerusalemme di oggi, il rapporto con gli ultra-ortodossi. A chi lo giudica un monumento secolare, Calatrava stesso ha risposto dicendo che per il ponte si è ispirato «alla cetra di Davide». Ma poi – nella sfarzosa cerimonia di inaugurazione – l’amministrazione municipale di Gerusalemme ha subìto la pena del contrappasso. Come racconta il Jerusalem Post ha dovuto far coprire all’ultimo minuto un gruppo di ballerine (neanche poi così scollacciate) con improbabili palandrane che hanno fatto gridare al «talebanismo ebraico». L’anno prossimo si vota per il sindaco. E a Gerusalemme il consenso degli ultra-ortodossi pesa. Molto più di un monumento di Calatrava.
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