Tra opposti sospetti e reciproche accuse il Libano cerca di capire quale futuro lo attenda, dopo i violenti scontri che da venerdì scorso ad oggi sono costati la vita a oltre 80 persone e hanno determinato un'escalation di tensione mai così acuta negli ultimi tempi. Perché se le armi sembrano al momento tornate a tacere (a parte qualche scaramuccia notturna nel Nord), se si sono temporaneamente allentati i toni dei giorni scorsi, la miccia sembra essere ancora accesa e la polveriera potrebbe esplodere da un momento all'altro.
Da una parte l’appoggio, nuovamente ribadito, di George W. Bush al filo-occidentale governo Siniora. Dall’altra l’accusa degli stessi Usa e dell’Arabia Saudita all’Iran di aver fomentato il «colpo di Stato» in Libano. Poi l’esercito libanese, ora pronto a usare la forza per «mettere fine alle violenze». E, ancora, Hezbollah, che minaccia di riprendere le armi se il governo dovesse tornare a insistere sulle due decisioni che hanno scatenato la più grave crisi interna del Paese sin dalla guerra civile (1975-1990).
È tra opposti sospetti e reciproche accuse che il Libano cerca di capire quale futuro lo attende, dopo i violenti scontri che da venerdì in poi sono costati la vita a oltre 80 persone e hanno determinato un’escalation di tensione mai così acuta negli ultimi tempi. Perché se le armi sembrano al momento tornate a tacere (a parte qualche scaramuccia notturna nel Nord), se si sono temporaneamente allentati i toni dei giorni scorsi, la miccia sembra essere ancora accesa e la polveriera potrebbe esplodere da un momento all’altro.
Gli scontri erano iniziati venerdì, quando i miliziani di Hezbollah avevano preso il controllo di Beirut Ovest: un blitz dovuto, secondo il movimento sciita, alla necessità di contrastare due provvedimenti governativi: la decisione di dichiarare «illegale» la rete di telecomunicazioni di Hezbollah e il «licenziamento» del direttore dell’aeroporto di Beirut, ritenuto vicino al Partito di Dio. Decisioni denunciate come una «dichiarazione di guerra» dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
In realtà, hanno fatto notare diversi analisti, più che sui due provvedimenti in questione, la partita giocata nella capitale nasconderebbe la volontà di Hezbollah di imporre al governo Siniora la sua lista di priorità, sfruttando anche il nodo della presidenza, tuttora da sciogliere. Le condizioni di Hezbollah sono note: l’intesa su un governo di unità nazionale e una nuova legge elettorale sono le due «clausole» che il movimento sciita considera irrinunciabili. E quindi da anteporre all’eventuale «sì» all’elezione alla presidenza del comandante dell’esercito Michel Suleiman, cattolico maronita sul cui nome era stato raggiunto un faticoso compromesso.
Letta in quest’ottica la fiammata di Hezbollah appare quindi come una prova di forza in vista di un riposizionamento del movimento nel panorama politico libanese. Hezbollah ha dimostrato quanto i suoi uomini possano ottenere nel Libano attuale, grazie a una struttura militare importante e all’appoggio di cui gode in ampie fasce della popolazione. «Non vedo come possa esistere una società con Hezbollah armati fino a quel punto», ha osservato il presidente Usa Bush, condannando i «tentativi di Hezbollah e dei suoi sponsor all’estero, a Teheran e Damasco, di usare la violenza e l’intimidazione per sottomettere alla loro volontà il governo e la popolazione del Libano». «L’Iran è l’unico Paese che non interferisce nella situazione politica in Libano», ha replicato, secco, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.
Per ora, comunque, restano le barricate erette dai miliziani sciiti a Beirut, così come la chiusura del porto e dell’aeroporto della capitale. Mentre ha ripreso le trasmissioni la tivù filo-governativa al-Mustaqbal («Il Futuro») del leader sunnita Saad Hariri, costretta venerdì scorso alla chiusura dagli uomini di Hezbollah e di Amal. Hariri ha sottolineato che non accetterà una dialogo «con le armi puntate alla testa»: «Stanno semplicemente chiedendoci la resa, vogliono che a Beirut sventolino le bandiere bianche. Questo è impossibile, non ci arrenderemo», ha detto il figlio di Rafiq Hariri, l’ex premier ucciso in un attentato nel febbraio del 2005.
L’esercito, rimasto fino ad ora neutrale, ha annunciato che, se necessario, imporrà con la forza l’ordine e la sicurezza. Il Partito di Dio non sembra voler cedere, tanto più ora che il governo è pronto a far cadere i due provvedimenti all’origine degli scontri. Nel frattempo è stato nuovamente rinviato (per la diciannovesima volta) l’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente: se ne riparlerà il 10 giugno, se nel frattempo non si sarà reso necessario un ulteriore rinvio. Lo stallo, dunque, permane. Per domani è atteso a Beirut l’arrivo di una delegazione guidata dal segretario della Lega araba Amr Mussa, pronto a spendersi in un tentativo di mediazione. Nessuno, però, compresi gli esponenti della maggioranza e dell’opposizione libanese, si illude che il tentativo possa andare facilmente a buon fine.