Molti sembrano quasi villaggi turistici. Stradine ben asfaltate che scorrono tra piccoli edifici a uno o due piani immersi nel verde oppure casette con il classico tetto rosso circondate da prati all’inglese e giochi per bambini. Piante esotiche e rare che incorniciano piscine e spiagge attrezzate. Atmosfera serena e tranquilla.
Stiamo a parlando dell’ultima versione dei kibbutz israeliani. Come Sdot Yam, a due passi da Cesarea Marittima, lo straordinario sito archeologico che conserva testimonianze imponenti della conquista romana della Palestina.
Sdot Yam è un kibbutz che si sta modernizzando. Fondato nel 1940 da Ben Gurion era approdo sicuro per gli ebrei che, clandestini, raggiungevano la terra d’Israele sotto il mandato britannico. Oggi nell’edificio più grande, che si trova al centro della struttura c’è ancora la mensa comune ma da qualche anno è aperta anche a visitatori e pellegrini. Qui non è ancora possibile affittare stanze ma la vocazione turistica sta soppiantando quella agricola. Un destino comune a molti altri kibbutz. Gli storici avamposti che introdussero e identificarono fin dall’origine lo Stato d‘Israele, (il termine deriva dalla radice qbts che significa «mettere insieme, raccogliere») sono costretti a trasformarsi per sopravvivere.
Una legge fatta approvare dal governo di Ariel Sharon nel 2004, e che ha avuto come promotore l’attuale premier israeliano Ehud Olmert, ha sancito la rivoluzione con l’introduzione della proprietà privata. Secondo molti è stata così decretata la fine del mito fondante del socialismo sionista.
In Israele esistono ancora 260 kibbutz ma già due terzi hanno fatto esperimenti di privatizzazione con l’introduzione di stipendi differenziati legati al merito, le case sono diventate di proprietà, ci sono auto private. Una scelta obbligata per evitare lo spopolamento di queste colonie agricole insediate da stili di vita sempre più borghesi che invogliano i giovani a trasferirsi in città dove ci sono meno rinunce e maggiori possibilità di lavoro ed incontro. Soprattutto dopo il periodo di leva obbligatoria è crescente il numero di ragazzi e ragazze che abbandonano la vita in collettività.
Oggi gli israeliani che vivono nei kibbutz sono meno di 120 mila. Per far fronte alla necessità di braccia che richiedono i campi si ricorre sempre più a immigrati stranieri provenienti dal sud-est asiatico.
La vita degli israeliani in queste comuni resta completamente diversa da quella del resto della popolazione. Certo nulla di paragonabile a come si viveva nel kibbutz delle origini. Il primo venne fondato nel 1909 a Degania da un gruppo di ebrei russi (erano in 12) che influenzati dal socialismo cercarono di sperimentare forme di vita in comune ispirate al marxismo.
Questi avamposti ebraici ebbero subito una forte connotazione ideologica, nazionale, coniugata comunque con l’universalismo proprio del socialismo dell’epoca. La vita nei kibbutz all’inizio era molto dura: povertà assoluta, lavoro pesantissimo. Inizialmente è l’Agenzia ebraica (un’organizzazione sionista istituita nel 1923 per aiutare la comunità ebraica in Palestina nell’epoca precedente il governo mandatario – ndr) che provvede a trovare ed acquistare le terre in Palestina. Soprattutto in zone disagiate o paludose come dimostra l’alto numero di kibbutz ancor oggi presenti in Galilea.
Con gli anni Trenta la crescente diffusione del sionismo tra le comunità in Europa parallelamente al diffondersi di sentimenti antisemiti aumenta il numero dei giovani ebrei che sognano il ritorno nella terra dei patriarchi. I kibbutz si moltiplicano e si raggruppano anche in organizzazioni politiche. Nascono correnti che si ispirano alle varie sfumature della sinistra e una corrente – fortemente minoritaria – di kibbutz religiosi. Indifferentemente dalla colorazione politica, l’organizzazione interna presenta molte analogie.
Il kibbutz esclude la proprietà privata, tutto appartiene al collettivo, che fornisce ai membri in maniera uguale i mezzi per vivere (indipendentemente dal valore economico del lavoro svolto). Tutte le entrate delle varie attività vanno al collettivo che è proprietario dei mezzi di produzione e dispone della forza lavoro. C’e’ un solo organo esecutivo e legislativo: è l’assemblea formata da tutti i membri del kibbutz. È la democrazia diretta che domina. Ancor oggi si vota almeno una volta alla settimana per assumere decisioni che riguardano la collettività. Certo oggi non si è più chiamati ad esprimersi per autorizzare a fare o non fare figli come all’inizio.
Il contesto familiare è stato duramente sacrificato nel kibbutz. In principio i genitori non dovevano occuparsi dei figli che anche nella più tenera età vivevano con i coetanei nella cosiddetta «casa dei bambini», sorvegliati da una donna del kibbutz che svolgeva la mansione di bambinaia.
Da questa peculiare scuola di vita è uscita una parte importante dei quadri dirigenti dello Stato di Israele, politici e militari molti dei quali ancira ancor oggi alla guida del Paese.
L’esempio più famoso è quello del generale Moshe Dayan che fu il primo nato del primo kibbutz: quello di Degania. Oggi, nella maggioranza dei casi, la vita è cambiata e le famiglie allevano ed educano i figli al proprio interno. Con la nascita dello Stato d’Israele i kibbutz attraversarono un periodo di espansione sociale ed economica. Nasce il miracolo dell’agricoltura israeliana che riesce a produrre e a esportare sui mercati di mezzo mondo.
Negli anni Settanta del secolo scorso i kibbutz diventano 250 con una popolazione di 100 mila unità (3 per cento degli israeliani) e producono più del 50 per cento dei prodotti agricoli del Paese e il 14 per cento di quelli industriali. Nel decennio successivo queste strutture raggiungono il culmine della loro potenza economica. È un successo che nasconde un lato oscuro. L’aumento delle entrate porta ad un salto nel tenore di vita: le case diventano più grandi, arrivano telefono e televisore e poi anche le auto (di proprietà del kibbutz ma ad uso dei singoli).
Alla crisi ideologica strisciante si somma la crisi economica della metà degli anni Ottanta. L’inflazione raggiunge il 400 per cento e determina enormi debiti per il movimento kibbutzistico. Per salvare questa istituzione dalla bancarotta deve intervenire il governo che impone agli istituti di credito più esposti una moratoria. Nessun kibbutz fallisce ma il trauma è enorme. Il mito entra definitivamente in crisi insieme all’ideologia socialista. Questa piccola grande utopia di Israele è al tramonto. Un crepuscolo sancito dalla riforma del 2004 (che avvia di fatto una forma di privatizzazione – ndr).
L’impallidire di uno dei simboli della società israeliana rischia di lasciare un vuoto difficilmente colmabile a livello ideale. Oggi sul campo sembrano sopravvivere solo il modello di vita «californiano» di Tel Aviv e quello proposto dell’integralismo religioso dei coloni ebrei arroccati negli insediamenti in Cisgiordania.
Intanto il passato dei collettivi agricoli è già finito nei libri di scuola. Il presente è invece sulle cartine stradali per i turisti, dove la parola kibbutz è sempre più associata all’idea di un piacevole agriturismo.