Recentemente, e se vogliamo anche un po’ in sordina, è stato comunicato dal Dipartimento delle Antichità d’Israele il risultato delle analisi compiute dagli specialisti nel settore di un gruppo notevole di scheletri umani rinvenuto nei lavori di ristrutturazione dell’area antistante la porta di Giaffa a Gerusalemme. I lavori vanno avanti da molti anni e la scoperta risale di fatto all’anno 1992. Per avere informazioni supplementari è necessario risalire alle cronache di quel tempo, per esempio all’edizione francese della nostra rivista La Terre Sainte (marzo-aprile 1994, pp. 197-198).
Gli scheletri erano ammassati dentro una grotta sul cui ingresso si trovava una croce scolpita e un’iscrizione in greco secondo la quale Dio solo conosceva i nomi dei martiri là sepolti. La grotta era la cripta di una chiesa di dimensioni modeste ma con pavimenti musivi e pitture di stile bizantino sulle pareti. L’immagine della Vergine, assai ben preservata, era visibile sopra una pietra delle rovine.
Purtroppo, all’epoca, il governo israeliano prese la decisione drastica di rimuovere totalmente tanto i resti umani quanto quelli archeologici. Forse ha giocato una parte anche l’interesse economico oltre allo scompiglio suscitato nelle comunità religiose, ebraica e cristiana, ciascuna delle quali rivendicava per sé l’appartenenza dei reperti. Così oggi si può parcheggiare un pullman in più lungo la strada, ma sarebbe stato meglio se il monumento storico fosse rimasto.
La quantità dei resti, diverse migliaia di individui, ha permesso uno studio approfondito. La differenza numerica tra uomini/donne e adulti/bambini (di molto a favore dei secondi) è spiegata dalle circostanze in cui gli uomini adulti sarebbero morti in battaglia, mentre donne e bambini uccisi nelle loro case. Caratteristiche morfologiche speciali li distinguono dalla contemporanea popolazione ebraica e araba (beduina). In conclusione lo studio antropologico sostiene la teoria che gli scheletri appartenessero alla popolazione cristiana di Gerusalemme.
Ad onore e ricordo di quelle persone, riportiamo la testimonianza del pellegrino russo Daniele che visitò la Terra Santa nel XII secolo: «Vicino a Gerusalemme, a oriente [occidente] della torre di Davide… alla distanza di un tiro di arco, c’è la grotta, dove riposano le reliquie di molti santi martiri, uccisi a Gerusalemme durante l’impero di Eraclio; e quel luogo si chiama Santa Mamilla» (Daniil Egumeno, Itinerario in Terra Santa, Città Nuova editrice, Roma 1991).
Secondo il lezionario georgiano dell’VIII secolo, il 20 maggio i cristiani di Gerusalemme solevano fare memoria con una sinassi nell’Anastasi (cioè riunendosi nella basilica costantiniana del Santo Sepolcro) dell’«Incendium Hierosolymae», cioè della devastazione e saccheggio della città di Gerusalemme compiuta da Cosroe, re dei Persiani, nel 614 dopo Cristo. In quell’occasione molte chiese furono distrutte dal fuoco e il patriarca Zaccaria condotto in esilio in Mesopotamia insieme con la reliquia della Santa Croce, come parte di un bottino di guerra di valore incalcolabile. Immenso fu anche il costo in vite umane, quantificato dalle fonti storiche in 40 – 65 mila persone uccise per la sola città di Gerusalemme.
Toccò all’imperatore Eraclio l’arduo compito di ristabilire l’onore delle truppe di Bisanzio, liberare le terre orientali conquistate e riportare indietro la reliquia sotratta, avvenimento che si compì il 14 settembre (cioè nella festa dell’Esaltazione della santa Croce) di quattordici anni dopo.
(L’autore è archeologo presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme)