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Pace ed economia

24/04/2008  |  Milano
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Uno dei grandi temi che - quando si parla del Medio Oriente - resta sempre sullo sfondo è la dimensione economica. C'è un rapporto tra pace, guerra e affari in quest'area del mondo? Un paio di articoli apparsi in questi giorni ci offrono due punti di vista interessanti.


Uno dei grandi temi che – quando si parla del Medio Oriente – resta sempre sullo sfondo è la dimensione economica. C’è un rapporto tra pace, guerra e affari in quest’area del mondo? Un paio di articoli apparsi in questi giorni ci offrono due punti di vista interessanti.

Sul sito di Common Ground Bernard Avishai analizza la situazione di Israele. Partendo da un’affermazione ripetuta più volte dal premier Ehud Olmert: nonostante le tensioni politiche dovute al conflitto con i palestinesi, la nostra è una delle economie più dinamiche del mondo. Una tesi che – nella variante Bibi Netanyahu – diventa: nell’high tech contano i cervelli, non la pace. Una tesi non condivisa da Avishai, che è un giornalista della Harvard Business Review.

Nell’articolo la contesta a partire da una serie di considerazioni meramente economiche: Israele per dimensioni non è paragonabile alla Francia; sarebbe più corretto fare un raffronto (perdente) con Singapore. E poi – nel giudicare lo stato di salute di un’economia – bisogna considerare anche il debito pubblico: se si tenesse conto dei parametri di Maastricht, ad esempio, Israele sarebbe abbondantemente fuori. Che la tensione politica, poi, non conti proprio niente è opinabile: ad esempio tra il 2000 e il 2004 – cioè durante la seconda intifada – nessuna grande azienda ha aperto filiali in Israele. «L’occupazione – conclude Avishai – porterà solo a un isolamento diplomatico sempre maggiore che, alla lunga, non potrà che trasformarsi in declino economico. Israele non mangia algoritmi. Non sarebbe ora che i manager israeliani dell’high tech e i pacifisti cominciassero a conoscersi un po’ meglio?».

Sul quotidiano degli Emirati arabi uniti Gulf News, invece, Mohammad Al Asoomi affronta la questione della crescita del prezzo del petrolio e le sue conseguenze sui generi alimentari. In questa situazione – spiega – i governi del Golfo, che sono tra i maggiori beneficiari dell’impennata del greggio, hanno annunciato che accresceranno gli investimenti nell’agricoltura e nella zootecnia araba. E hanno citato come esempio il caso del Sudan, Paese che avrebbe buone potenzialità ma invece deve tuttora fare i conti con la fame. Non è la prima volta che arrivano questi annunci, osserva Al Asoomi: già dagli anni Settanta sono stati avviati progetti. Ma sono rimasti piccola cosa. Per un motivo ben preciso: nei Paesi arabi mancano le leggi e le strutture amministrative in grado di proteggere gli investimenti. «C’è invece bisogno – spiega – che questi Paesi diventino più trasparenti». Siccome tuttora non lo sono, il grosso dei petrodollari continua a prendere la strada di lucrose partecipazioni azionarie in società occidentali. Non è sempre vero che pace e democrazia vanno al traino dell’economia. In Medio Oriente può succedere anche l’esatto contrario.

Clicca qui per leggere l’articolo di Common Ground

Clicca qui per leggere l’articolo di Gulf News

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