Emmaus, la fatica di credere
In tutto il Nuovo Testamento il villaggio di Emmaus ci è noto soltanto per l’episodio narrato da Luca nell’ultimo capitolo del suo Vangelo: un racconto che descrive il nascere della fede pasquale nel cuore di due discepoli di allora e nel cuore del discepolo di ogni tempo.
Scriveva François Mauriac nella Vita di Gesù: «A chi di noi l’albergo di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su questa strada una sera che tutto pareva perduto?».
Emmaus è un luogo dello spirito ben noto al credente, che non può dire con verità «davvero il Signore è risorto!» se non ha accolto la verità del volto di Dio che Gesù rivela nella sua morte di croce.
Ciò che accade ad Emmaus è anzitutto la ricucitura della conoscenza di Gesù lacerata tra la vita e la morte. I due viandanti non vedono alcuna continuità tra il profeta potente in parole e in opere e colui che è stato crocifisso.
La condanna e la morte di Gesù infrangono le attese di liberazione di Cleopa e del suo compagno di viaggio così come la sofferenza, il dolore innocente, l’impressione che il male prevalga mettono in crisi la nostra fede. Non restano che la delusione del cuore, il volto triste e la fuga da Gerusalemme.
Quanta nostalgia di Gesù nelle parole dei due amici, in quella cronaca di fatti non capiti! Quanta voglia e quanta paura di sperare nel segno del sepolcro vuoto, nella visione di angeli riferita dalle donne, nell’annuncio incredibile che «Egli è vivo!».
«Ma lui non l’hanno visto», è la triste conclusione dei due discepoli, che non vedono nello sconosciuto viandante Gesù risorto. Emmaus è il luogo verso il quale si cammina accanto a Gesù senza riconoscerlo; sono quei tratti di vita, quei passaggi faticosi che ci sembra di percorrere da soli. La liberazione che i due discepoli attendevano per Israele, va realizzata anzitutto negli occhi e nel cuore. Il viaggio verso Emmaus diventa un viaggio attraverso le Scritture per scoprire le linee e i colori di un disegno di salvezza che non esclude la sofferenza, ma la trasforma nel parto di una vita nuova. La presenza del Risorto ridona voce familiare alla parola di Mosè e dei profeti e il cuore torna ad ardere e chiede: «Resta con noi!».
Quando la nostra libertà si apre al rimanere con lui, Gesù diventa il protagonista: prende il pane, benedice, lo spezza, lo dà… Sono gli stessi gesti dell’ultima cena, nella quale Gesù aveva identificato il pane con il suo corpo, cioè con la sua vita donata, di lì a poco, sulla croce: «Questo è il mio corpo che è dato per voi: fate questo in memoria di me!» (Lc 22,19). Il pane spezzato dal Risorto riannoda i fili recisi del ricordare, del vedere e del credere. La morte di Gesù è compresa finalmente come dono d’amore, fedele a tutta un’esistenza di dedizione per il bene e la salvezza dell’uomo. L’annuncio del Regno, i miracoli di guarigione, lo stare a mensa con i peccatori, non hanno avuto sul Calvario una fine deludente, ma il sigillo di verità e di pienezza. Gli occhi finalmente aperti dei due discepoli guardano con luce nuova il luogo della crocifissione; l’amore che vi si rivela consola ogni nostro ritrovarci ai piedi della croce.
Il rimanere con Gesù non ha più bisogno della calda e rassicurante locanda di Emmaus; il riconoscimento del Vivente resta impresso per sempre nel cuore.
Cleopa e il suo amico ritornano subito a Gerusalemme con la buona notizia che Gesù risorto cammina con noi sulle strade del mondo; lo riconosceremo allo spezzare del pane e in tutti i gesti di dedizione che recano l’impronta del suo amore.
(L’autrice è claustrale a Milano nel monastero di Santa Chiara)