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Drammatica testimonianza dalla Striscia di Gaza

22/04/2008  |  Gaza City
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Drammatica testimonianza dalla Striscia di Gaza
Padre Manuel Musallam in mezzo ai suoi giovani a Gaza City.

«Siamo alla vigilia dell'assedio cruciale, dell'assedio più crudele, quello che seguirà all'esplosione della popolazione di Gaza e del massacro più brutale dell'esercito israeliano». Padre Manuel Musallam, unico sacerdote cattolico di Gaza City, non trova più le parole per scorgere una luce in fondo al tunnel: «Siamo in una situazione di disperazione: non c'è più benzina, non abbiamo viveri, la corrente è a giorni alterni, più di un milione di persone sono senza lavoro. Quei pochi che hanno un lavoro statale, insegnanti e poliziotti, non riescono a raggiungere i posti di lavoro; gli ospedali sono al collasso e le ambulanze non escono più: ci sono feriti che muoiono dissanguati perché nessuno è in grado di portarli in ospedale, ogni settimana troviamo cadaveri per strada».


«Siamo alla vigilia dell’assedio cruciale, dell’assedio più crudele, quello che seguirà all’esplosione della popolazione di Gaza e del massacro più brutale dell’esercito israeliano». Padre Manuel Musallam, unico sacerdote cattolico di Gaza City, dalla quale non esce dal marzo 2000, non trova più le parole per vedere la luce in fondo al tunnel: «Siamo obbligati a predicare la speranza in una situazione di disperazione: non c’è più benzina, non abbiamo viveri, la corrente è a giorni alterni, più di un milione di persone sono senza lavoro. Quei pochi che hanno un lavoro statale, insegnanti e poliziotti, non riescono a raggiungere i posti di lavoro; gli ospedali sono al collasso e le ambulanze non escono più: ci sono feriti che muoiono dissanguati perché nessuno è in grado di portarli in ospedale, ogni settimana troviamo cadaveri per strada. Questi sono crimini di guerra: è un regime disumano che non può continuare, la gente esploderà», è il grido del sacerdote. Raggiunto per telefono, l’unico collegamento con l’esterno rimasto, ma anch’esso intermittente, rimarca che «non si può vivere e non si può neanche pensare a Gaza: neanche gli animali vengono trattati come noi».

Abuna Manuel, come lo chiamano i suoi alunni che lo adorano come un patriarca, 69 anni, originario di Ber Zeit, è fondatore e direttore di una delle migliori scuole semi-private di Gaza: 1.200 studenti dai 5 ai 18 anni, 9 su 10 musulmani, dalla metà degli anni Novanta avevano trovato nella Latin Madrasat School una delle scuole meglio attrezzate di Gaza e un rifugio al deterioramento materiale e morale delle condizioni di vita nella Striscia.

Il black-out energetico imposto da Israele contro i quotidiani lanci di Qassam orditi da Hamas ha messo in ginocchio anche quelle poche strutture che restavano in piedi: «Sono stato l’unico ad aver mantenuto aperta la scuola quando anche le università hanno chiuso, ma da mesi non abbiamo più trasporti, non ci sono più autobus né pubblici né privati: i bambini camminano per ore prima di arrivare a scuola, e quando arrivano sono sfiniti, non riescono a concentrarsi, non possono neanche comprare una merendina… D’accordo con il ministero dell’Istruzione, che ci aveva detto di chiudere, abbiamo ridotto il numero di ore di insegnamento, 5 ore di lezione al giorno anziché 7, ma alcuni hanno già smesso di venire. Mi hanno detto: "Abuna, non ce la faccio più a camminare…". Se anche raggiungono la scuola, a volte le classi restano senza insegnante per lo stesso problema. Dai più piccoli agli adulti, è inimmaginabile il carico di problemi che ciascuno porta sulle spalle. In alcune scuole sono stati spediti a insegnare gli studenti universitari. Per tutte queste difficoltà, sempre con il ministero abbiamo pensato di chiudere prima l’anno scolastico: ai primi di maggio anziché alla fine di maggio, per far finire gli esami entro il 15 maggio, la data della Nakba», la Catastrofe, come viene ricordata dai palestinesi la proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948.

«Ci danno l’elettricità per alcune ore al giorno – prosegue padre Manuel -, ma non abbastanza per far funzionare i generatori ed è troppo costoso tenerli accesi durante il giorno. Ormai possiamo solo riunirci in chiesa e pregare. Gli israeliani non smettono di uccidere, ogni giorno qualcuno viene ucciso: il posto di ritrovo degli abitanti di Gaza è il cimitero, stanno svuotando la Striscia. Non ci sono più neanche le bare, a volte i corpi vengono coperti con la sabbia».

La paura di morire domina su tutto, aggiunge, mentre la miseria dilaga. «Si incontrano sempre più spesso intere famiglie, famiglie numerose, ridotte all’indigenza, che mancano di tutto… Così chi può uscire per andare a trovare una parte della famiglia in Cisgiordania non esita: a Ramallah, a Beit Sahour, a Betlemme, a Beit Jalla, a Nablus, dovunque possono almeno sopravvivere, sbarcare il lunario in qualche modo, ma qui nella Striscia come possiamo sopravvivere? Non c’è nulla e non c’è possibilità neanche di lavori saltuari: da quando il personale delle agenzie umanitarie ha lasciato la Striscia, non c’è il cibo assicurato neanche per 10 giorni al mese».

Alcune famiglie cercano di far uscire almeno i bambini, ma spesso non c’è possibilità di riaverli indietro: i più piccoli lasciano la Striscia e si rifugiano in Cisgiordania dai parenti, ma rischiano di essere separati dai genitori per un periodo imprecisato di tempo. «La dispersione delle famiglie, cristiane e musulmane, è quello che mi preoccupa di più – riflette il sacerdote -. La moglie di uno dei nostri vicini è andata dai parenti a Ramallah con i bambini, ora non può più rientrare: security reasons. Questo significa che ora il marito deve provvedere a lei fuori di Gaza, i bambini sono confusi, non riescono a capire cosa stia succedendo, devono iscriversi a un’altra scuola, ricomprare i vestiti e non hanno un soldo, stare lontano dal padre e dai compagni di classe, nessuno sa se potranno tornare».

Malgrado l’imminente catastrofe umanitaria e mentre l’esercito israeliano continua a ventilare l’ipotesi di un’invasione di terra all’inizio dell’estate, della quale nessuno conosce gli esiti, l’Egitto mantiene chiuso il confine con la Striscia: «Le frontiere non sono chiuse: sono sigillate» scandisce padre Manuel. «Nessuno può entrare nella Striscia, neanche religiosi che volessero venire ad aiutare, neppure il patriarca… Ciascuno ha già venduto tutto quel che poteva: oro, mobili, tutto pur di sopravvivere. I negozi sono vuoti: avremmo bisogno di 700 camion di merci al giorno per un milione e 200 mila persone. Invece gli israeliani ne fanno entrare sette al giorno. Accadono fatti inconcepibili: una coppia di giovani ha deciso di sposarsi un mese fa e non poteva comprare un letto: lo hanno noleggiato dai vicini per la notte di nozze e l’hanno restituito al mattino dopo… a questo siamo arrivati».

È in questa situazione ai limiti della sopravvivenza che padre Musallam sta preparando il festival di fine anno scolastico: «Ho scritto un’opera teatrale, tratta da una storia vera, di due fratelli palestinesi costretti dalla vita a separarsi. Gli studenti la metteranno in scena: ci sarà folklore, canti, danze… I bambini avranno una festa anche quest’anno. A dispetto delle violazioni quotidiane dei diritti umani che viviamo, a dispetto della punizione inflitta ad un’intera nazione, i miei bambini canteranno e balleranno».

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