Accesissimo è stato il dibattito pubblico scoppiato di recente in Inghilterra in seguito a un discorso tenuto dal Primate della Chiesa anglicana, l’arcivescovo di Canterbury. Il dottor Rowan Williams sembrava essere favorevole al fatto che il legislatore inglese, in certe materie e a certe condizioni, facesse rimando alla legge religiosa islamica, la sharia.
La stampa popolare ha scritto in merito alla questione un fiume di invettive; i giornali più paludati sono stati solo un poco più garbati. Inevitabilmente sono poi arrivate le chiarificazioni, le correzioni, le smentite, le «contestualizzazioni», ma anche la ferma difesa dell’idea centrale: cioè che una società plurale dovrebbe accogliere nelle sue leggi alcuni aspetti della pluralità religiosa rappresentata nel territorio. E questo, ovviamente, in nome appunto della libertà di religione.
Ed è qui che non posso non dissentire dalle posizioni di Rowan Williams. Il diritto alla libertà religiosa, così come è internazionalmente definito ed è proclamato dalla Chiesa cattolica (nella Dichiarazione «Dignitatis humanae» del concilio ecumenico Vaticano II), è un diritto che le persone, individualmente e associatamente, possono rivendicare nei confronti della società e dello Stato.
È un diritto ad essere liberi da coercizioni sociali e civili. Esso non si deve confondere con eventuali deleghe date dallo Stato alle organizzazioni religiose per esercitare esse stesse poteri coercitivi squisitamente civili sulle persone identificate come loro seguaci. Così si ottiene il contrario della libertà di religione e di coscienza – e di tutte le altre libertà, diritti, immunità e facoltà comprese nel discorso dei diritti umani.
Se il primate anglicano conoscesse da vicino le sorti dei cittadini di diversi Stati nel territorio della nostra Missione di Terra Santa, lo avrebbe senz’altro compreso subito da sé. Parliamo di ordinamenti che classificano i cittadini a secondo della religione assegnata dal registro civile, in base all’ascendenza, e senza riferimento obbligato alle scelte personali e di coscienza. E li sottopongono, volenti o nolenti, al potere di legislazioni religiose molto diverse tra di loro, infrangendo così il principio fondamentale dello Stato di diritto, che è l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Si tratta di materie che toccano intimamente la vita delle persone, come il matrimonio e la prole. In più, con l’eccezione dell’ordinamento canonico, si tratta di leggi e tribunali che non conoscono l’eguaglianza dell’uomo e della donna. Questo stato di cose è molto diverso da quella libertà irrinunciabile delle collettività religiose di regolarsi autonomamente quanto al loro governo, al culto, all’insegnamento religioso, e così via.
E non ci si venga a dire che in Inghilterra la delega della giurisdizione dello Stato ai tribunali islamici riguarderebbe soltanto i «volenterosi», perché è fin troppo palese che, qualora questa delega venisse data, il libero arbitrio delle persone, e soprattutto delle donne, non sarebbe più in alcun modo libero.
Ci si aspetterebbe dalle nazioni più avanzate un aiuto alle altre comunità per progredire sulla strada della democrazia, dello Stato di diritto, dell’eguaglianza delle donne, dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge.
Capita a volte che pensino di regredire per somigliare di più a quelle meno fortunate.