Rosa speranza
Doppiamente ferite dall’occupazione e dalla violenza suicida dalla seconda intifada. Ostaggi di una cultura patriarcale che assegna alla donna un ruolo secondario nella società e la tiene lontana dal mondo del lavoro. Vittime tanto in Cisgiordania quanto a Gaza di un diritto di famiglia forgiato dalla sharia, la legge islamica in base alla quale servono le testimonianze identiche di quattro uomini per credere alla parola di una donna vittima di uno stupro o di un incesto; e viene punito con appena sei mesi di reclusione chi si macchia dei cosiddetti «delitti d’onore». La condizione della donna in Palestina non è meno drammatica che in altri Paesi nel mondo arabo. Eppure, forse anche grazie all’osmosi con la società israeliana e all’influenza della colta minoranza cristiana, oggi le donne sono la maggioranza degli studenti delle 11 università palestinesi; protagoniste delle battaglie per l’indipendenza e per la parità fin dalla prima intifada, sono presenti in Parlamento e dal 2003 hanno un ministro per le Donne. Il collasso dell’economia palestinese dal 2000 ad oggi ha ulteriormente ridotto la loro partecipazione al mondo del lavoro, ferma a circa il 18 per cento della popolazione: eppure sono proprio le donne – senza distinzione fra cristiane o musulmane – le destinatarie di una quota crescente di microcrediti per l’avvio di attività commerciali e di mutui per la casa distribuiti dalla Chiesa di tutto il mondo attraverso le agenzie umanitarie cattoliche presenti in Terra Santa. È un quadro variegato quello che emerge dall’analisi dei pochi dati disponibili e delle molte storie di lotta ad oltranza che vedono per protagoniste le palestinesi. Per raccontarle abbiamo intrapreso un viaggio in Cisgiordania e in Israele, dove in nome dei diritti civili le donne israeliane e palestinesi hanno già fatto la pace.