Nabil Kukali. L’uomo dei numeri
I palestinesi, divisi da una guerra fratricida, la pensano come i leader di Fatah o come i capi di Hamas, a proposito della pace? «Il 67,6 per cento dei palestinesi ha appoggiato la partecipazione palestinese ai negoziati di Annapolis ed è per trovare una mediazione». A dirlo è Nabil Kukali, palestinese e cristiano, professore di statistica all’Università di Hebron. Nabil è uno degli anonimi rappresentanti della società civile palestinese; una voce intellettuale indipendente, che utilizza metodi statistici secondo una rigorosa scuola scientifica. Una voce che, in questo periodo di confusione, potrebbe indicare una concreta prospettiva di speranza. Nabil vive con la famiglia, moglie e sei figli, a Beit Sahur, secondo la tradizione cristiana il villaggio dei pastori che, visti gli angeli, andarono ad adorare Gesù appena nato. Il terrazzo di casa sua dà sulla valle. È sera quando lo andiamo a trovare e uno spettacolo di luci sparse sulle pendici intorno fa venire in mente un presepe. La moglie ci offre dolci alle mandorle e alcuni dei sei figli si siedono con noi.
Palestinese in Wyoming. «Sono nato da una famiglia cristiana di Beit Sahur – racconta Kukali – e fin da piccolo ho tenuto in mente questa definizione: la democrazia è il governo di tutto il popolo di un Paese. Anno dopo anno questa convinzione è divenuta sempre più forte, in particolare durante gli anni dei miei studi negli Stati uniti». Il dottor Kukali infatti, dopo la laurea in economia all’Università di Betlemme, si specializza in statistica all’Università del Wyoming, Usa. Negli anni Ottanta lascia le aspre colline di ulivi della Palestina per volare dall’altra parte del mondo, a Cheyenne, nella pancia più profonda degli Stati Uniti. Israele e Palestina contano insieme oltre 9 milioni di abitanti su un affollato territorio di 28 mila chilometri quadrati. Il Wyoming è grande dieci volte tanto e conta solo mezzo milione di abitanti; è famoso per gli indiani nativi e le meraviglie del gigantesco parco naturale dello Yellowstone. E da lì la sanguinosa lotta per un fazzoletto di terra che si combatte in Terra Santa, è lontana mille miglia. «Mi sono sempre piaciuti i Paesi freddi – racconta divertito Nabil, in un ottimo inglese -. In Wyoming sono rimasto sei anni e mezzo, ma poi ho deciso di tornare perché la mia vita in realtà è qui». Gli studi e il distacco dalla patria fanno comunque maturare le sue convinzioni scientifiche. «Indagare la pubblica opinione, ovvero ciò che il popolo pensa e prova, e divulgarlo attraverso i differenti media, è uno degli strumenti che può rafforzare una democrazia in via di definizione – spiega Nabil -. È proprio la situazione che oggi vive la Palestina».
Tornato in patria Kukali trova lavoro alla Hebron University, prima come ricercatore, poi come professore associato di statistica. Pubblica decine di articoli scientifici e nel ’94 fonda finalmente il Palestinian Center for Public Opinion (Pcpo – www.pcpo.ps), uno dei pochissimi istituti di statistica attivo nel territorio palestinese.
Statistiche e resistenza. «Lavoriamo nonostante la guerra – racconta Kukali -. Ho fatto crescere un gruppo affiatato di giovani diplomati, una squadra di oltre 40 professionisti, che oggi operano come intervistatori, ricercatori, traduttori, su tutto il territorio Palestinese. La situazione è complicata, non c’è solo la divisione geografica tra la striscia di Gaza e la Cisgiordania, c’è anche la divisione politica; di fatto ormai ci sono due Palestine e non più una. In questo momento non è possibile spedire i questionari cartacei da Gaza a Beit Sahur, attraverso la frontiera. I soldati israeliani non capiscono di cosa si tratti e non li fanno passare. Così i dati statistici della Striscia vengono elaborati a Gaza secondo le indicazioni scientifiche che gli mandiamo, e solo dopo mandati a Beit Sahur per analizzarli assieme».
L’ultimo lavoro pubblicato dal Pcpo riguarda il pensiero dell’opinione pubblica palestinese su Annapolis e le speranze di pace. «La maggioranza della popolazione palestinese vuole negoziare, con la garanzia degli outsider, come gli Usa, gli Stati arabi, l’Unione europea – spiega Kukali -. Anche la Chiesa può svolgere un ruolo attivo per la pace: può parlare con gli israeliani e con i palestinesi. E la sua presenza è molto importante per i cristiani di Palestina. In pochi anni, in particolare dopo la seconda intifada e la costruzione del muro, e trovare lavoro in Israele è molto difficile. I cristiani se ne vanno: siamo passati dal 10 all’1,5 per cento. L’unico modo che abbiamo di sopravvivere è il commercio e il turismo. Non vogliamo soldi. Ma una speranza per le nostre attività economiche».
Nabil ha diversi cugini all’estero: uno in Germania, uno fa il medico in un ospedale italiano. «In questa seconda intifada molti cristiani hanno deciso di lasciare la Palestina ma io non voglio – spiega Kukali -. Questa è la mia patria. I miei figli studiano ancora tutti. Quel che dico loro è che se parti sarai uno straniero per tutta la vita. La mia casa è a 200 metri dalla basilica della Natività. Posso sentire le campane tutte le mattine. Questo è un privilegio. Io ai miei figli l’ho detto, ma la decisione è loro, e di certo le previsioni sul futuro in questa area non sono ottimistiche».