Nelle ultime settimane abbiamo visto immagini molto pesanti dalla Terra Santa. E oggi si è aggiunta la terribile notizia della morte dell'arcivescovo caldeo di Mosul Faraj Rahho, rapito in Iraq il 29 febbraio scorso. Intanto la tregua ottenuta a Gaza con la mediazione egiziana è durata solo una manciata di giorni. Tutti segnali molto inquietanti. Eppure non ci stancheremo mai di raccontare anche il coraggio di chi - anche in questa situazione - continua a gettare semi di pace. Ecco allora tre notizie in questo senso giunte da Israele e dalla Palestina, che in queste ore appaiono quanto mai significative.
Nelle ultime settimane abbiamo visto immagini molto pesanti dalla Terra Santa. E oggi si è aggiunta la terribile notizia della morte dell’arcivescovo caldeo di Mosul Faraj Rahho, rapito in Iraq il 29 febbraio scorso. Intanto la tregua ottenuta a Gaza con la mediazione egiziana è durata solo una manciata di giorni. Tutti segnali molto inquietanti. Eppure non ci stancheremo mai di raccontare anche il coraggio di chi – anche in questa situazione – continua a gettare semi di pace. Ecco allora tre notizie in questo senso giunte da Israele e dalla Palestina, che in queste ore appaiono quanto mai significative.
La prima viene dai nostri amici del Parents Circle, che molti nostri lettori ben conoscono. Una delle caratteristiche più belle dell’associazione che riunisce i genitori israeliani e palestinesi che hanno perso un proprio caro nel conflitto, è la disponibilità a utilizzare ogni forma espressiva per portare il loro messaggio di riconciliazione. Si può leggere così anche la loro ultima fatica: la produzione di una serie tivù, intitolata Una terra che divora i suoi abitanti.
È la storia di due donne – una israeliana e una palestinese – che partecipano a un reality sulla cucina. E attraverso questa metafora aiutano a leggere il conflitto. Sceneggiata da Ronit Weiss-Berkowitz insieme alle famiglie del Parents Circle la serie tivù è diretta dal regista Uri Barabash. Le riprese sono in corso e la messa in onda sulla televisione israeliana è in programma entro la fine dell’anno.
Sul quotidiano Yediot Ahronot, invece, si parla di due artisti, un ebreo e un musulmano, che hanno realizzato in ebraico e in arabo una canzone ispirata a una storia scritta da bambino da Gilad Shalit, il soldato israeliano che da quasi due anni ormai è ostaggio delle milizie palestinesi a Gaza. Una storia da undicenne, che parla dell’incontro tra un pesce e uno squalo. Mi ha colpito il coraggio dell’arabo Zuher Daim che – senza se e senza ma – ha accettato di tradurre dall’ebraico questo testo. Commentando: «Vogliamo avvicinare il giorno in cui tutti i prigionieri, israeliani e palestinesi, saranno liberati. Non abbiamo altra scelta».
Sul sito palestinese Miftah, infine, è stato pubblicato il nuovo sondaggio del Palestinian Center for Public Opinion (Pcpo), osservatorio attento rispetto agli umori della società palestinese. Il 73 per cento degli interpellati si dice a favore della tregua tra israeliani e palestinesi. Ma il dato ancora più significativo è che il 49,4 per cento si dichiari anche apertamente contrario agli attacchi suicidi dentro il territorio di Israele. A qualcuno potrà sembrare poco. Ma il fatto che – in un sondaggio condotto a caldo, nei giorni in cui a Gaza restavano sul campo 125 morti, tra cui donne e bambini – un palestinese su due si esprima comunque contro gli attentati suicidi, è una testimonianza di come anche in un conflitto apparentemente schiavo dei riflessi condizionati ci sia ancora spazio per la ragione.
Tre segni di speranza. Tre testimonianze di come il Medio Oriente – anche in un’ora di nuovo difficile – sia più grande dei luoghi comuni in cui troppi vorrebbero rinchiuderlo.
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