Che ne sarà degli uomini che credono in Dio? La pinguedine, l'autorealizzazione e la diffusa conoscenza scientifica li estingueranno del tutto? Esiste un rischio reale di guerra di civiltà, da intendere come conflitto tra culture e religioni, che può minacciare la pace nel mondo? Nella ricerca di risposte a questi interrogativi può rappresentare uno strumento prezioso lo studio intitolato Sacro e secolare, dei due politologi statunitensi Pippa Norris e Ronald Inglehart.
Che ne sarà degli uomini che credono in Dio? La pinguedine, l’autorealizzazione e la conoscenza scientifica li estingueranno del tutto oppure esisterà sempre nel mondo qualche povero nella carne o nello spirito a rappresentare il bisogno di trascendenza ancora così ampiamente manifestato attraverso le fedi, pur con alterna intensità e coerenza, in tutte le latitudini del globo? Esiste un rischio reale di guerra di civiltà, da intendere come conflitto tra culture e religioni, che può minacciare la pace nel mondo?
Nella ricerca di risposte a questi interrogativi può rappresentare uno strumento prezioso lo studio intitolato Sacro e secolare, dei due politologi statunitensi Pippa Norris e Ronald Inglehart. Schierando numeri, tabelle, indicatori e sondaggi riguardanti un’ottantina di nazioni a sostegno dei propri argomenti, i due studiosi verificano criticamente alcune delle teorie più diffuse riguardanti il rapporto tra la pratica religiosa e la politica (con particolare attenzione ad alcuni capiscuola attivi negli ultimi due secoli: Weber, Freud, Marx, Durkheim, Stark e altri).
Il fatto è che, cifre alla mano e contrariamente al buon senso comune, un italiano o un irlandese continuano ad andare a Messa e si mostrano scettici sull’esclusione del sacro dai temi eticamente sensibili più di quanto facciano tedeschi e francesi, che pure vivono in Paesi in cui sono rappresentate più credenze. Gli statunitensi persistono a credere in gran numero in un Dio che li spinge ad orientare di conseguenza le scelte politiche più delicate, pur vivendo nel Paese post industriale per eccellenza. In pari tempo un musulmano medio risulta essere più propenso verso la democrazia di quanto si possa comunemente pensare.
Sono solo alcuni dei dati attraverso cui vengono smantellati gli assiomi dei profeti della secolarizzazione, per i quali il progresso scientifico e tecnologico annullerà infallibilmente negli uomini e nelle società le domande esistenziali che riguardano il divino; uguale sorte cade sui fautori del «mercato delle fedi», che stimano che si creda di più nei luoghi dove la varietà di culti presenti possa soddisfare una maggiore quantità di «palati» spirituali diversi.
Esce malconcia dall’agone anche la quotatissima teoria del conflitto tra civiltà, che prevede un atroce confronto tra i popoli che sanno dividere il sacro dal profano (le democrazie occidentali) e quelli che non ne sono capaci (gli islamici). Sul rapporto Islam-Occidente si sofferma in particolare il capitolo sesto, che intende provare l’incoerenza nei numeri della teoria di Samuel Huntington (sullo scontro tra civiltà) e verificare le intuizioni di Inglehart sulla proporzionalità diretta e prevedibile tra il cambiamento di certi parametri socio-economici e il progresso di una nazione verso una secolarizzazione non sistematicamente impermeabile al sacro, ma tollerante verso culture e popoli diversi.
I dati riportati, che evidenziano la percezione degli individui di area islamica su punti di possibile conflitto verso l’Occidente, portano alle seguenti quattro conclusioni: non c’è differenza di consenso verso l’efficacia delle diverse forme di potere negli Stati (islamici e occidentali si bilanciano nel criticare o avallare le forme governative cui sono sottoposti); il giudizio verso la democrazia come valore assoluto è peggiore nelle aree ex comuniste o in Sudamerica, più positivo nel mondo occidentale e nei Paesi islamici (dove, cioè, ha creato meno delusioni); si riscontra una lieve oscillazione nell’apprezzare l’attivismo dei leader religiosi (islamici e latinoamericani tendono ad avallare maggiormente sconfinamenti delle loro guide spirituali in politica), mentre è provata la grande linea di frattura sulla percezione dell’uguaglianza di genere e sulla morale sessuale: il «no» che mediamente un islamico oppone oggi all’aborto, all’omosessualità, all’autorealizzazione della donna nel lavoro e nell’istruzione a scapito dei figli promette di rimanere saldo anche nel giudizio delle prossime generazioni.