Il «problema vero» nei negoziati fra la Santa Sede e Israele su fisco e proprietà ecclesiastiche sta «nell'assenza di un mandato preciso da parte delle autorità politiche [israeliane] al team di tecnici di affrontare queste questioni come eccezioni, così come era previsto dall'Accordo fondamentale tra le due parti. Ne è convinto il rabbino David Rosen, direttore del Comitato internazionale ebraico per gli incontri interreligiosi e membro della delegazione israeliana nei negoziati sull'Accordo Fondamentale che il 30 dicembre 1993 diede il via alle relazioni diplomatiche fra Santa Sede e Israele. Nostra intervista.
Il «problema vero» nei negoziati fra la Santa Sede e Israele su fisco e proprietà ecclesiastiche sta «nell’assenza di un mandato preciso da parte delle autorità politiche [israeliane] al team di tecnici di affrontare queste questioni come eccezioni, così come era previsto dall’Accordo fondamentale: i burocrati non vogliono creare dei precedenti, specialmente se si tratta di conferire alla Chiesa dei benefici «che né gli ebrei né i musulmani godono in Israele», e i politici non danno loro istruzioni per farlo».
A dirlo è il rabbino David Rosen, direttore del Comitato internazionale ebraico per gli incontri interreligiosi (coalizione di varie organizzazioni ebraiche che rappresenta il giudaismo mondiale nei rapporti con le altre religioni) e membro della delegazione israeliana nei negoziati sull’Accordo fondamentale, che il 30 dicembre 1993 diede il via alle relazioni diplomatiche fra Santa Sede e Israele. In un colloquio con Terrasanta.net punta il dito contro «l’incomprensione» di fondo da parte degli attuali negoziatori delle premesse sulle quali era stato siglato il trattato del 1993 e rimarca che «quel che la Chiesa vuole è che Israele si senta tenuto a trattare la Chiesa in modo differente, perché questi erano gli impegni assunti 14 anni fa». Il timore di Israele, spiega, è che «l’introduzione nelle leggi israeliane di parametri legali esclusivi per la Chiesa cattolica non venga accolta facilmente» dall’opinione pubblica.
Rabbino Rosen, come ricorda i negoziati che portarono all’Accordo Fondamentale nel 1993? Che tipo di «resistenze» ci furono?
Non posso parlare di «resistenze» da parte della Santa Sede, benché, come è noto, ci fossero alcuni che ritenevano che anche dopo la Conferenza di Madrid del 1991 e gli Accordi di Oslo avrebbe potuto essere pericoloso per gli interessi della Chiesa con il mondo arabo e con il Terzo mondo allacciare relazioni diplomatiche con Israele. Da parte israeliana c’era chi considerava la Chiesa un partner irrilevante sul piano delle relazioni internazionali e non vedeva perché Israele dovesse fare uno sforzo in questo senso. C’erano anche altri, e forse sono quelli che ora hanno prevalso, che ritenevano che il prezzo che Israele doveva pagare per questi rapporti non fosse necessario e, anzi, persino problematico. In ogni caso all’epoca erano voci minoritarie e in generale c’era un clima di reciproca e positiva aspettativa.
Per quanto riguarda i negoziati e l’Accordo vero e proprio, si raggiunse un testo comune ma c’era e rimane ancora oggi un profondo divario nelle percezioni. La Santa Sede avrebbe voluto che la Chiesa fosse trattata come una realtà preesistente lo Stato, mentre Israele vede le istituzioni e le proprietà della Chiesa cattolica come parte integrante dello Stato ebraico. Inoltre la Santa Sede vede i propri fedeli cattolici in Israele come soggetti a due diversi sistemi legali, sia il Diritto canonico che la legge israeliana; Israele al contrario li vede semplicemente come cittadini israeliani soggetti alle leggi dello Stato d’Israele e a nient’altro (in parole povere, qualsiasi altro orientamento rientra nella sfera della coscienza personale e non ha nulla a che fare con lo Stato). Il risultato è che l’Accordo Fondamentale contiene in se stesso una «ambiguità costruttiva» che autorizza ciascuna delle due parti ad interpretarla secondo la propria visione.
Come spiega che dopo 14 anni l’accordo finanziario ancora non veda la luce?
Il Vaticano si sta concentrando sul mancato raggiungimento dell’accordo fiscale, ma il trattato del 1993 conteneva anche l’impegno per concludere un accordo sulla personalità giuridica della Chiesa, che è stato effettivamente raggiunto circa quattro anni dopo, anche se non è ancora stato tradotto in legge israeliana dalla Knesset. Mentre la percezione esterna è che il ritardo sull’accordo finanziario sia dovuto a difficoltà burocratiche, a mio avviso è il risultato del fallimento da parte delle autorità politiche israeliane nel fornire un mandato preciso ai burocrati di affrontare queste questioni come eccezioni, così come era previsto dall’Accordo fondamentale. Questo è il vero problema: i burocrati non vogliono creare dei precedenti (specialmente se si tratta di conferire alla Chiesa dei benefici che né gli ebrei né i musulmani godono nello Stato ebraicoۛ) e i politici non danno loro istruzioni per farlo. E se non lo fanno è anche perché non conoscono o non capiscono le premesse sulle quali gli impegni erano stati assunti, per varie ragioni: perché sono arrivati a ricoprire i loro incarichi molto tempo dopo che l’Accordo era stato fatto e non hanno approfondito queste materie o vedono la loro applicazione come un’enorme grana. O semplicemente perché la vita politica israeliana passa da una crisi all’altra: ci sono questioni molto più urgenti sul tappeto e questo argomento continua ad essere accantonato.
Pensa che ci siano difficoltà «culturali» o «ideologiche» che ostacolano il raggiungimento di una soluzione?
Non parlerei di difficoltà di questo tipo né da parte della maggioranza degli israeliani né da parte del governo: sono convinto piuttosto che ci sia il timore che l’introduzione nelle leggi israeliane di parametri legali esclusivi per la Chiesa cattolica non venga accolta facilmente.
In generale come viene percepita la Chiesa cattolica in Israele?
La maggior parte degli israeliani ignora che vi siano dei cattolici in Israele, e in effetti molti di loro non incontrano mai un cristiano della comunità locale: anche se è un Paese piccolissimo, la gente tende a stare all’interno delle proprie comunità. In ogni caso ritengo che se venisse loro chiesto, gli israeliani risponderebbero che la presenza cattolica è molto positiva e riconoscerebbero l’importanza dei Luoghi Santi per milioni di cristiani in tutto il mondo, e ciò che questo comporta per Israele.
L’ex nunzio in Israele, mons. Pietro Sambi, lo scorso novembre rivolse dure critiche allo Stato d’Israele attraverso Terrasanta.net per la lentezza dei negoziati con la Santa Sede, giungendo ad affermare che «i rapporti erano migliori quando non c’erano relazioni diplomatiche». Lei che ne pensa?
Credo che dal suo punto di vista, e in realtà oggettivamente, sia un giudizio equo. Fin dalla firma dell’Accordo fondamentale sono state introdotte norme fiscali e limiti sui visti per il clero che hanno reso più difficile di prima la vita per la Chiesa. In ogni caso queste leggi non sono state introdotte esplicitamente per i cristiani, al contrario: le restrizioni sui visti sono iniziate per motivi di sicurezza, e le nuove tassazioni per gli interessi dello Stato d’Israele. I «pesi» sono «pesi» per ebrei, cristiani e musulmani. Quello che l’arcivescovo Sambi intendeva dire e quel che la Santa Sede vuole è che Israele si senta tenuta a trattare la Chiesa in modo differente, perché questi erano gli impegni assunti 14 anni fa con l’Accordo fondamentale.
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Nota della redazione: Onde evitare equivoci, si ricorda ai lettori che, com’è noto, la diversità di trattamento fiscale per le istituzioni religiose ebraiche (e musulmane ufficiali) da una parte, e cattoliche dall’altra, è fisiologica allo Stato. In Israele, le istanze religiose ufficiali, ebraiche (e essenzialmente anche musulmane), sono parte dello stesso apparato dello Stato: Il Gran Rabbinato, i Rabbinati locali, i tribunali rabbinici ecc. sono uffici dello Stato, direttamente finanziati dallo Stato, mentre non lo sono (e non intendono esserlo) le analoghe istanze della Chiesa. Anche molteplici realtà volontarie ed associative religiose ebraiche (per esempio, le Yeshivot, o seminari rabbinici, sono lautamente finanziate dallo Stato, come non lo sono (e non intendono esserlo) quelle cattoliche. Invece di tali finanziamenti – mai chiesti o voluti dalla Chiesa – la Chiesa non chiede che il riconoscimento, la riconferma, delle esenzioni fiscali già acquisite al momento della creazione dello Stato, nel 1948. Per cui riservare un trattamento fiscale diverso alla Chiesa non implicherebbe affatto, in verità, una situazione «privilegiata» rispetto alle realtà religiose direttamente finanziate dallo stesso Stato.