«In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto […]. Perché il Santo, benedetto Egli sia, non liberò soltanto i nostri padri, ma noi pure liberò insieme con loro». Con queste parole ogni anno la liturgia famigliare della cena pasquale ebraica attesta la dinamica di un racconto «memoriale» che, unito a gesti significativi, permette di «uscire» nuovamente dall’Egitto secondo le indicazioni date da Dio stesso durante l’Esodo: «In quel giorno racconterai a tuo figlio dicendogli: questa celebrazione ha luogo per quello che mi fece il Signore quando uscii dall’Egitto» (Es 13,8).
Non si tratta quindi solo del ricordo di un evento di salvezza unico e irripetibile ma della possibilità di riviverlo diventandone «contemporanei» attraverso una celebrazione che lo attualizza nel tempo: si ricorda per essere liberi, e dal momento che tale libertà è un dono divino deve poter essere condiviso con tutti coloro che ne hanno bisogno e che lo desiderano. Per questo la liturgia, proprio nella parte iniziale, precisa: «Chi ha fame venga e mangi, chi ha bisogno venga e faccia Pasqua», invito che viene rivolto in aramaico (mentre il resto della celebrazione avviene in ebraico) in quanto questa era la lingua parlata da tutti nel periodo in cui il rito si è fissato.
Shaul Cernikochowski, riprendendo tale invito in una sua poesia, così lo reinterpreta: «Chi ha fame venga e mangi! Chi ha bisogno venga a far Pasqua! Sei tu qui, straniero, e non hai chi ti accolga, se hai smarrito le forze nel tuo lungo cammino, guai a colui che rifiuta di aprirti la sua porta e non offre del pane al misero, al tapino! Chi ha fame venga e mangi! Chi ha bisogno venga a far Pasqua! […] Vieni dunque o fratello: se hai bisogno di me ti scoprirò dei cieli l’infinita grandezza» (cfr. Letture ebraiche, a cura di D. Lattes, Unione della Comunità Israelitiche Italiane).
Un altro aspetto particolarmente significativo di questa celebrazione è il suo essere un ambito significativo per la testimonianza di fede e la trasmissione della tradizione: la lettura dell’Haggadah, il racconto dell’uscita dall’Egitto commentato dai maestri, è infatti la risposta della generazione adulta di fronte alle domande dei più piccoli in relazione ai cibi rituali presenti sulla tavola (come le azzime e le erbe amare), generazione più giovane che costituisce il futuro del popolo di Israele, e che a sua volta sarà chiamata a dare la stessa risposta quando da adulta verrà interpellata nello stesso modo. È in questo contesto che anche Gesù di Nazaret è cresciuto e si è formato come ebreo del suo tempo, ed è nell’orizzonte del «memoriale» pasquale ebraico che ha istituito l’eucaristia invitando i discepoli a celebrarla in «memoria» della sua Pasqua (cfr. 1Cor 11,23-24). Per questo il magistero postconciliare, ribadendo che l’elezione del popolo di Israele è un «dono divino» che in quanto tale non può essere revocato (cfr Rm 9-11), ricorda che la presenza del popolo ebraico che testimonia la sua fede celebrando nel tempo è un dono prezioso per i cristiani che, assieme agli ebrei, attendono il dispiegarsi definitivo della salvezza nella storia (cfr Sussidi per la corretta presentazione di Nostra Aetate 4a, 1985, n. V).