Domani, 19 marzo, il patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah rassegnerà in maniera formale le dimissioni al Papa, in coincidenza con il suo settantacinquesimo compleanno, come previsto dal Codice di diritto canonico. Lo ha annunciato nella lettera pastorale consegnata alla diocesi il primo marzo scorso. La nostra rivista Terrasanta pubblica nel numero di marzo-aprile una lunga intervista a colui che è stato il primo arabo a diventare patriarca dopo il ristabilimento del patriarcato a Gerusalemme, nel 1847. Vi proponiamo qui un ampio stralcio del colloquio con il direttore Giuseppe Caffulli.
Domani 19 marzo il patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah rassegnerà in maniera formale le dimissioni in coincidenza con il suo settantacinquesimo compleanno, come prevede il Codice di diritto canonico. Lo ha annunciato nella lettera pastorale consegnata alla diocesi il primo marzo scorso. La nostra rivista Terrasanta pubblica nel numero di marzo-aprile una lunga intervista a colui che è stato il primo arabo a diventare patriarca dopo il ristabilimento del patriarcato a Gerusalemme, nel 1847. Vi proponiamo qui un ampio stralcio del colloquio con il direttore Giuseppe Caffulli.
Monsignor Sabbah, lei è nato a Nazaret e nella città dell’Incarnazione ha ricevuto la vocazione sacerdotale…
Sono tempi lontani. Ho frequentato fin da piccolo la scuola dei Fratelli delle scuole cristiane e lì, attraverso il catechismo e il contatto con i frere, ho sentito la chiamata al sacerdozio. Da Nazaret sono poi partito per il seminario minore diocesano. Era il gennaio del 1943. Lo Stato d’Israele non c’era. Ho preso semplicemente la strada di Jenin, in quelli che oggi sono i Territori palestinesi e poi ho attraversato Nablus, la Samaria, Ramallah e infine sono arrivato a Gerusalemme. Nel 1948 c’è stata la divisione politica nel Paese e sono nate le frontiere. A quel tempo in seminario avevano varato un nuovo regolamento che permetteva ai seminaristi di tornare a casa per le vacanze. È stata una buona cosa per tutti, tranne che per quelli come me, che venivano da una zona ormai oltre frontiera. E così sono stato per 12 anni in seminario a Beit Jala, allora parte della Giordania, senza poter tornare a casa. Nel 1955 sono stato ordinato a Nazaret, grazie a una concessione speciale dei governi di Israele e della Giordania. Sono stato ordinato dal patriarca del tempo Alberto Gori. E l’ordinazione ha avuto luogo nella basilica dei salesiani, perché all’Annunciazione erano già in corso lavori per l’edificazione della nuova basilica.
Lei si è sempre prodigato per le scuole di Terra Santa, prima come direttore e in seguito come patriarca…
Per noi la scuola è molto importante. Abbiamo due basi per l’azione pastorale: la scuola e la famiglia. Il parroco visita le famiglie in modo sistematico, una volta o due l’anno. Si recita il rosario nelle serate del mese di maggio, stabilendo un contatto personale. Il contatto è poi attraverso le scuole, che sono aperte anche ai musulmani. La scuola è luogo di educazione, di ecumenismo con le altre componenti cristiane presenti in Terra Santa e anche di dialogo interreligioso con le famiglie musulmane. Ed è anche il luogo per le nostre vocazioni sacerdotali, perché il parroco è sempre il responsabile della scuola e conosce i ragazzi e le ragazze che la frequentano. Le scuole sono la vita per il presente e per il futuro per la Chiesa di Terra Santa.
Nel 1988 è arrivata la sua nomina a patriarca… Che cosa ha pensato quando ha ricevuto la notizia?
Non mi aspettavo in nessun modo di diventare patriarca. Entrerò nella storia per essere stato il primo patriarca arabo? Certo, questo sì. Ma si tratta di una cosa normale nella vita di una diocesi. Quando il primo patriarca fu reinsediato a Gerusalemme a metà Ottocento, fu lui ad avviare questo processo di creazione del clero locale. Il patriarca di allora venne praticamente senza preti, solo con alcuni missionari. E per prima cosa aprì il seminario. Già lui riuscì ad ordinare 12 sacerdoti. Grazie a questa intuizione oggi la Chiesa di Terra Santa ha un clero vivace, capace di dare anche vescovi… Anche il mio predecessore mons. Giacomo Beltritti, pur essendo italiano, apparteneva al clero del patriarcato e aveva studiato nel nostro seminario.
Cosa ho pensato? Mi sono detto: invece che a una parrocchia o a una scuola, mi sarei dedicato ad una realtà più grande… La responsabilità e la difficoltà non era certo paragonabile. Ho cercato così di creare attorno a me una comunità di persone che mi potesse aiutare e sostenere in questo nuovo servizio. Il mio consiglio presbiterale è stato per me un aiuto nel cammino di questi vent’anni.
La nomina coincise praticamente con lo scoppio della prima Intifada. Quali difficoltà si trovò a fronteggiare?
Intanto l’aver a che fare con un clima di violenza. In molte occasioni i militari venivano in patriarcato a renderci visita, per gli auguri di Natale o di Pasqua, come è usanza… I rapporti umani erano anche cordiali… Ma era un fatto la loro responsabilità in una scelta politico-militare che si chiama occupazione, e che dura anche oggi. La mia posizione era molto chiara, ed è la stessa anche oggi. La libertà è un dono di Dio alla persona e al popolo. Un dono di Dio va rispettato. Dato che si tratta di un dono di Dio, nessuno può sottrarlo o concederlo. Se questo dono viene sottratto, se una persona o un popolo viene occupato o privato della sua libertà, questa persona o questo popolo ha il diritto-dovere di adoperarsi per riprendersi la propria libertà, anche se questo comporta sacrifici e rischio della vita. Israele oggi ha il suo Stato. Va bene, lo rispettiamo. Ma Israele occupa un territorio non suo, e qui è in errore. L’occupazione deve terminare.
In questa situazione di violenza lei però non si è mai stancato di predicare la non-violenza…
La non violenza si fonda su due pilastri, uno più teorico, l’altro più pragmatico. Gesù ci ha detto: amate il nemico. Il nemico è quello che vi fa male, quello che vuole ammazzarti, rubare la nostra libertà. Amare il nemico non vuol dire amare il male che fa il nemico. Dio ama il nemico, non ama certo il male che fa. Amare il nemico vuol dire vedere l’immagine di Dio in lui malgrado il male che lui fa. Con questa visione, io divento più forte e posso dire al mio nemico: sei in errore, non hai il diritto di farmi dal male e di privarmi della mia libertà. Questa è la visione cristiana, difficile per tutti in tutto il mondo, non solo da noi.
Ma c’è poi la ragione pragmatica: da cent’anni le due parti usano la violenza e nessuno ci ha guadagnato. Israele ha oggi il suo Stato, ma non ha la pace e non ha la sicurezza. La gente ha paura. La violenza non ha portato a nulla. I palestinesi con la violenza hanno perduto tutto. Tutta la Palestina è nelle mani degli israeliani. Dunque, molto pragmaticamente, dico: dobbiamo cambiare strategia, proviamo la non-violenza, che porterà certamente nuovi frutti. La forza militare non porterà mai a nessun risultato. Gli ebrei hanno l’esercito e persino la bomba atomica, ma non potranno sradicare l’odio… Non saranno mai liberi e sicuri veramente finché non sarà imboccata la strada della riconciliazione.