«La situazione della popolazione cristiana irachena è quella di una comunità che ha perso fede nel proprio Paese. Perciò l'emigrazione si è trasformata in un esodo, in una fuga. La paura domina ogni aspetto della vita e ogni episodio di violenza diventa una minaccia mortale». Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad, offre, in una lunga intervista rilasciata a Giuseppe Caffulli per la nostra rivista Terrasanta, una testimonianza in presa diretta di cosa significhi essere cristiani a Baghdad e nelle altre martoriate città di quella regione. Ne pubblichiamo ampi stralci.
«La situazione della popolazione cristiana irachena è quella di una comunità che ha perso fede nel proprio Paese. Perciò l’emigrazione si è trasformata in un esodo, in una fuga. La paura domina ogni aspetto della vita e ogni episodio di violenza diventa una minaccia mortale. Bisogna aggiungere poi le difficoltà economiche. Le minacce dei fondamentalisti di vendicarsi di chiunque lavori per gli alleati o addirittura per lo Stato o anche per compagnie straniere ha fatto perdere a molti il posto lavoro. Tanti altri lo hanno perso perché le fazioni dominanti lo hanno preteso. Infine c’è da segnalare che l’esodo verso il Nord procura una maggiore sicurezza ma non necessariamente il lavoro. Comunque i villaggi cristiani del Nord mancano terribilmente di infrastrutture, di imprese artigianali, industriali o commerciali».
Monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad (autore del recente volume Nella trappola irachena, Paoline, 2007, 9,50 euro), offre, in una lunga intervista rilasciata a Giuseppe Caffulli per la nostra rivista Terrasanta, una testimonianza in presa diretta di cosa significhi essere cristiani a Baghdad e nelle altre martoriate città di quella regione. Ne pubblichiamo ampi stralci.
Monsignor Sleiman, ci può dare un quadro della presenza cristiana nel Paese?
Ci sono i cattolici divisi in caldei, siro-cattolici, armeni cattolici, greci cattolici e latini; gli ortodossi orientali professano le seguenti confessioni: assiri (Chiesa dell’Oriente con sede patriarcale negli Stati Uniti e Antica Chiesa dell’Oriente con sede patriarcale a Baghdad), siro-ortodossi (giacobiti), armeni gregoriani; orientali bizantini, i greci ortodossi; varie comunità protestanti. Secondo le stime i cristiani sarebbero 750 mila, il 3 per cento della popolazione irachena che è di circa 25 milioni.
Nel suo libro racconta del «dramma della dhimmitudine». Di cosa si tratta?
La «dhimmitudine» è un termine che deriva dalla parola araba dhimma, coscienza. Essa indica il sistema di relazioni dei poteri dei musulmani con i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani, considerati gente devota ad un libro sacro. Concretamente questo sistema di relazione prevedeva la loro protezione dietro il pagamento di un tributo per capita, chiamato gizia e l’accettazione di una cittadinanza di secondo rango. I dhimmi erano giustapposti ai fedeli e loro sottomessi. Questa situazione ha alienato la personalità culturale dei dhimmi, ha favorito le divisioni tra le varie comunità ed incoraggiato la delazione. Il principio della «dhimmitudine» è la disuguaglianza fondamentale tra il credente musulmano e il non credente, anche se altri interessi (specialmente economici) hanno modificato in parte il sistema.
Nel nuovo Iraq, quale posto possono avere i cristiani? Finiranno stritolati tra i vari fondamentalismi musulmani?
Purtroppo il nuovo Iraq, anche se la sua Costituzione menziona i cristiani, sembra ignorare le minoranze. Il Paese verrebbe diviso tra le tre grandi maggioranze: la sunnita, la sciita e la curda. Comunque la laicizzazione alla maniera occidentale mi sembra esclusa. I laici non hanno vinto alle elezioni (che si sono tenute il 30 gennaio 2005 – ndr). Questo è ben significativo. Si è parlato di cittadinanza e di diritti fondamentali ma la realtà è ben altra. Oggi dominano i radicalismi etnico-confessionali.
In che modo le Chiese d’Occidente possono aiutare i cristiani iracheni?
Le comunità cristiane d’Occidente possono innanzitutto richiamare alla mente di tutti, specie dei governanti, che l’Oriente cristiano esiste e può svolgere un ruolo molto positivo a servizio della pace, della coesistenza e dei rapporti culturali. La presenza cristiana nei Paesi arabo-islamici va protetta anche per il bene delle stesse società arabo-islamiche: le aiuta a non chiudersi e a non isolarsi in fondamentalismi narcisisticamente violenti. Sulla stessa scia, possono pure incitare i responsabili politici a una diplomazia del dialogo e del consenso. La guerra è stata una decisione unilaterale. La pace non sarà mai raggiunta alla stessa maniera. La partecipazione dell’Europa, per esempio, alla ricostruzione umana, politica ed economica dell’Iraq, garantisce più successo agli sforzi americano-iracheni. Nel frattempo, gli aiuti umanitari e per lo sviluppo rimangono urgenti e necessari.