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Lo choc di Dimona

05/02/2008  |  Milano
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Lo choc di Dimona

Sono tornati gli attentati suicidi in Israele. E la notizia non può che dominare sulle pagine dei giornali. In Medio Oriente, ma non solo. L'impressione è quella di un copione purtroppo già visto tante volte. Però c'è un fatto nuovo che vale la pena di sottolineare: non poteva esserci un luogo più simbolico della città di Dimona, 40 mila abitanti, nel cuore del deserto del Negev. Non lontano da Dimona, infatti, sarebbe stoccato l'arsenale nucleare israeliano. Nella mente di chi ha progettato l'attentato, l'idea era proprio quella di colpire là dove Israele ha le sue armi più potenti. E ancora una volta le prospettive di pace potrebbero allontanarsi.


Sono tornati gli attentati suicidi in Israele. E la notizia non può che dominare sulle pagine dei giornali. In Medio Oriente, ma non solo. L’impressione è quella di un copione purtroppo già visto tante volte. Però c’è un fatto nuovo che vale la pena di sottolineare: non poteva esserci un luogo più simbolico della città di Dimona, quarantamila abitanti, nel cuore del deserto del Negev. Dimona è infatti un nome legato a filo doppio al nucleare israeliano. È qui – nella centrale costruita dai francesi durante gli anni Cinquanta – che è nato ed è tuttora stoccato l’arsenale atomico di Gerusalemme.

Come racconta molto bene oggi un articolo del Jerusalem Post, una delle principali preoccupazioni della Difesa israeliana è sempre stata difendere Dimona. Ebbene, ieri il terrorismo palestinese ha colpito proprio qui. In una zona commerciale della città, d’accordo. Ma nella mente di chi ha progettato l’attentato, l’idea era proprio quella di colpire là dove Israele ha le sue armi più potenti. Un messaggio rivolto alla piazza araba, già galvanizzata qualche giorno fa dall’azione con cui era stato aperto un varco nel confine di Rafah. Azioni che non portano a nulla (il confine tra Gaza ed Egitto è già richiuso). Ma che alimentano tragicamente l’illusione che ci possa essere una via d’uscita diversa rispetto a quella di un negoziato equo. Questa è la ricaduta davvero grave di quanto accaduto ieri.

Vale per gli arabi, ma vale anche in Israele. C’è già chi ha cominciato a dire che – siccome gli attentatori appartenevano a gruppi classificati sotto l’etichetta di Fatah -, allora il processo di pace è già morto e sepolto. Lo stesso primo ministro Ehud Olmert ha aggiunto che quella in corso nel Sud di Israele «ormai è una guerra». È l’ora dei riflessi condizionati: subito si è detto che la strage era il risultato del confine «aperto» a Gaza. Salvo poi scoprire che i due attentatori venivano da Hebron, cioè dalla Cisgiordania. Allora ecco Yedioth Ahronot argomentare: il problema è il muro, che a sud non è stato finito. Peccato che i lavori vadano a rilento perché definire il tracciato vorrebbe dire stabilire a quali insediamenti Israele è disposto a rinunciare.

Più interessanti – in questo caso – le parole del sito palestinese Miftah. Che «condanna categoricamente» l’attentato di Dimona come «qualsiasi atto di violenza che deliberatamente colpisce civili innocenti». Ma ricorda che – come la donna israeliana uccisa ieri – anche alcune delle persone rimaste uccise a Gaza nelle scorse settimane durante i bombardamenti dell’aviazione israeliana erano persone che cercavano semplicemente di vivere una vita normale. «Lo spreco della vita umana è stato ancora reclamato da entrambe le parti – conclude Miftah – e continuerà a inondare i titoli dei giornali finché non sarà riconosciuto un fatto decisivo: che la violenza genera solo altra violenza».

Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post

Clicca qui per leggere l’articolo di Yedioth Ahronot

Clicca qui per leggere l’articolo di Miftah

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