Aperta e chiusa nel giro di poche ore, la conferenza internazionale di Annapolis sul Medio Oriente, del 27 novembre scorso, è stata più che altro l’occasione per prendere altro tempo e fare promesse solenni da parte di israeliani e palestinesi, ma anche del governo statunitense. La Casa Bianca ha deciso di giocare tutto il suo peso politico nel supervisionare e incoraggiare il prosieguo dei negoziati in vista di un accordo complessivo di pace da firmare entro la fine del 2008.
Sul terreno gli esiti della Conferenza sono stati accolti con cautela. La storia recente ammaestra: troppe parole di pace sono state pronunciate per poi restare lettera morta, tante speranze sono state accese e poi disilluse.
Allora non stupisce che i capi religiosi cristiani di Terra Santa non abbiano sentito il bisogno di salutare gli esiti di Annapolis con una delle loro non infrequenti dichiarazioni comuni. Ha parlato il patriarca latino, Michel Sabbah, che nel messaggio di Natale, diffuso il 19 dicembre, ha menzionato il «nuovo sforzo di pace intrapreso nelle ultime settimane» ricordando che «perché riesca occorre che ci sia una decisa volontà di fare la pace. Finora non c’è stata pace semplicemente per la mancanza di volontà nel farla». Non dissimile l’approccio del vescovo luterano di Giordania e Terra Santa, Munib Younan, che ha commentato: «Nutro la speranza che Annapolis sia un tentativo serio di raggiungere una pace duratura… per ora è solo una firma. Adesso bisogna percorrere il cammino dei negoziati. L’esperienza ci ha insegnato che le parole e i colloqui devono essere accompagnati da mutamenti tangibili e visibili sul terreno».
Dal canto loro, gli Usa ci tengono a mostrare al mondo il rinnovato vigore del loro impegno: la visita in Medio Oriente che il presidente George W. Bush effettua tra il 9 e 16 gennaio – la prima in Israele e Palestina da quando è alla Casa Bianca – ha anche questo intento.
A chi gli ha chiesto se creda davvero che nell’ultimo anno del suo mandato presidenziale sia possibile raggiungere un risultato ambizioso come la pace tra israeliani e palestinesi, Bush ha risposto con ottimismo. Ha però anche circoscritto le attese: si tratta, secondo il presidente, di giungere a un accordo su cosa e come dovrà essere quello Stato palestinese che ormai anche Israele ritiene necessario.
Naturalmente dovrebbe trattarsi di uno Stato che rigetta il terrorismo, dotato di istituzioni democratiche funzionanti e capace di promuovere lo sviluppo economico e sociale della popolazione. Par di capire che a Bush tanto basterebbe.
Ma le cose non sono così semplici. Ai primi di gennaio i media arabi hanno riferito che Israele vorrebbe l’approvazione americana su una serie di richieste inaccettabili per i palestinesi: mano libera alle sue forze di sicurezza nei Territori mentre i negoziati sono in corso; uno Stato palestinese demilitarizzato; libertà di sorvolo del territorio palestinese per l’aeronautica israeliana; mantenimento di truppe in Cisgiordania con la possibilità di schierare rinforzi in caso di minacce da Oriente; controllo delle frontiere di accesso alla Palestina per sapere chi entra ed esce.
A ciò si aggiunge la richiesta che i palestinesi riconoscano come fondamentale l’ebraicità dello Stato di Israele, cosa che – teme la dirigenza palestinese – potrebbe compromettere i diritti civili della consistente minoranza araba con cittadinanza israeliana e porre un ostacolo insormontabile al negoziato sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
La strada dopo Annapolis resta un percorso accidentato.