Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

La sfida di mettersi nei panni degli indifesi

padre David M. Jaeger
28 gennaio 2008
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Tempo addietro – mio malgrado – ho avuto l’avventura di prendere parte ad una commissione disciplinare aziendale. In oggetto: accuse pesanti di scorrettezza mosse da alcune persone ad un immigrato, che negava però ogni addebito. E che anzi non voleva neppure prendere le contromisure a disposizione contro gli accusatori. «Sono straniero – sosteneva – e di colore, lontano dalla mia gente, sono solo in questo Paese, senza nessuno che mi difenda». E aggiungeva: «Preferisco accettare il licenziamento dal lavoro per non avere altri problemi». Gli altri membri del «tribunale» sarebbero stati contenti di prenderlo in parola e licenziarlo. Io però resistetti, e chiesi di poter parlare all’uomo da solo, quasi fossi suo avvocato ex officio. Una volta in disparte, gli dissi che purtroppo era inevitabile che lasciasse l’azienda, ma spontaneamente, per salvare la propria dignità, e non in modo coatto. Il procedimento disciplinare, spiegai – sia a lui che, successivamente, rientrando in aula, ai miei colleghi – andrebbe ora azzerato, e l’uomo ci lascerebbe di sua iniziativa, perché deciso a cambiare mestiere.

Nella mia semplicità credevo che i colleghi si congratulassero con me per l’eleganza della soluzione. Sbagliai. Il presidente, normalmente un uomo buono e leale, era furibondo, alterato: «Ci hai fatto perdere un’altra ora – mi disse con rabbia -. Non avevi sentito che era pronto a lasciare anche prima?»

A nulla valsero le mie spiegazioni circa il fatto che, in mancanza dell’esercizio effettivo della facoltà di difesa da parte dello sfortunato, non avrebbe giovato all’onore dell’azienda stessa un suo licenziamento coatto. Dato che quell’uomo si sentiva solo ed indifeso, gli spettava come minimo il diritto di dimettersi – almeno all’apparenza – liberamente, per cercarsi un’altra occupazione. Il presidente rimaneva avvolto nel suo sdegno per aver perso inutilmente, secondo lui, quell’«ora» in più…

Una cosa quell’episodio mi ha però insegnato: è difficile per noi, normali cittadini di Paesi prosperi e sicuri, immedesimarci nelle moltitudini di stranieri soli ed emarginati venuti in mezzo a noi! Quanto difficile è per noi la conversione dai nostri orizzonti ai loro! È come se vivessimo in un’altra «dimensione». Fisicamente possiamo anche trovarci ad abitare lo stesso spazio, ma quanto diverso, opposto, è il nostro rispettivo modo di «sperimentarlo».

Di questo cambiamento d’orizzonte fu capace Francesco, quando andò in mezzo ai lebbrosi del suo tempo. La sua conversione avvenne non nel semplice atto di volerli servire ed accudire, ma nel diventare interiormente uno di loro, come ci rivela nel suo Testamento: «Ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza». È quello che si intendeva nel passato più recente quando si soleva parlare di «opzione preferenziale per i poveri»: non solo «fare del bene», ma impegnarsi a sperimentare fino in fondo la realtà tutt’intera come la sperimentano loro!

L’ «assistenza» al povero non fa altro che accentuare il nostro vantaggio, la nostra sicurezza. L’opzione dello stare «con loro e come loro» cambia profondamente la nostra percezione del mondo e delle sue vicende.
Mi sono spesso chiesto cosa fece scattare in me la solidarietà – anche se piuttosto timida – a quel povero disgraziato. Non fu certo alcuna superiorità morale. Fu probabilmente il mio essere ebreo, figlio di un popolo che dell’essere emarginato e del sentirsi impaurito ed indifeso ha fatto tanta esperienza.

Ma poi, se anche fossi palestinese, avrei probabilmente pensato e reagito istintivamente nello stesso modo.

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