La saga delle elezioni presidenziali in Libano assomiglia sempre di più a una farsa. Undici rinvii consecutivi in due mesi (il prossimo è fissato per il 12 gennaio) hanno lasciato il Paese dei cedri praticamente senza presidente. Alla fine del suo mandato, il 24 novembre scorso, il presidente uscente Emile Lahoud non ha così potuto consegnare le redini del potere ad alcun successore. Nelle settimane precedenti, Beirut aveva assistito a un andirivieni continuo di mediatori, dai ministri degli Esteri di Francia, Italia e Spagna al segretario generale delle Nazioni Uniti, a quello della Lega araba Amr Moussa. Un pressing internazionale che non è riuscito a smuovere i due schieramenti politici libanesi, nonostante l’unanime accettazione del generale Michel Suleiman quale candidato «consensuale». Maggioranza e opposizione continuano, infatti, a barricarsi dietro alibi costituzionali che non permettono in pratica lo svolgimento delle elezioni. La maggioranza invita ad aprire le porte del Parlamento per approvare il progetto di emendamento costituzionale sottoposto dal governo di Fouad Siniora, necessario per spianare la strada verso il palazzo presidenziale al comandante in capo dell’esercito, per procedere in seguito alla sua elezione. L’opposizione, da parte sua, non intende riconoscere alcun ruolo al governo «illegittimo» dopo le dimissioni, nel novembre 2006, di tutti i ministri sciiti, lo accusa di aver «usurpato» le prerogative del presidente cristiano, ed esige il previo accordo su un pacchetto completo (come la ripartizione del potere nel futuro governo) per mettere fine al proprio boicottaggio delle elezioni.
Risultato? Nessun titolare alla suprema carica «cristiana» dello Stato. Una situazione, questa, che non mancherà – qualora dovesse protrarsi ancora a lungo – di avere gravi ripercussioni sull’effettiva partecipazione dei cristiani al governo. Alcuni osservatori prevedono, infatti, altri rinvii delle elezioni fino a metà marzo, data in cui dovrebbe tenersi il prossimo vertice arabo a Damasco. La fumata bianca a Beirut si rivela così strettamente legata alla soluzione delle divergenze regionali tra l’asse Damasco-Teheran e l’asse Riad-Il Cairo. Altri preconizzano, invece, un’elezione del nuovo presidente con la maggioranza semplice, ossia senza il previsto quorum dei due terzi dei deputati al primo turno, il che aprirebbe il Libano al caos e all’eventuale spaccatura tra due governi paralleli.
Ad assumersi la responsabilità di un’eventuale destabilizzazione del Libano dovrebbero essere anzitutto i politici libanesi i quali, ancora una volta, stanno dando al mondo l’impressione che il loro Paese sia incapace di gestirsi da solo e abbia sempre bisogno di qualche «tutore». Ma la responsabilità ricade anche su quelle potenze che continuano a considerare il Libano una scacchiera ideale sulla quale cercare di segnare punti contro i propri avversari o schivare i colpi in arrivo. È quanto si intuisce dall’invito del presidente francese Nicolas Sarkozy alla Siria a collaborare concretamente alla soluzione della crisi libanese, pena l’accelerazione dell’istituzione del tribunale internazionale sull’assassinio di Hariri. Come dire che un’effettiva collaborazione siriana sarà ricompensata con il silenzio sugli errori del passato. Nel caso specifico, il braccio di ferro tra i due assi regionali sta inoltre assumendo, per certi aspetti, una colorazione di conflitto tra sunniti e sciiti, con ogni campo che schiera in prima fila le proprie pedine cristiane. Una triste realtà. Perché se è vero che il Libano può volare solo con due ali, è altrettanto vero che per volare ha pur bisogno di una testa.