Iran, vivere da cristiani nella terra degli ayatollah
All’origine dell’esodo dei cristiani dall’Iran ci sono «la paura di un’invasione americana che renda l’Iran un mattatoio come accaduto in Iraq» e «l’incertezza per l’avvenire dei figli, soprattutto per l’impossibilità di restare cristiane per quelle ragazze che sposano un musulmano». Ma, avverte il vescovo caldeo di Teheran, mons. Ramzi Garmou, anche sui media grava una pesante responsabilità per le nubi che continuano ad addensarsi sul suo Paese. E questo malgrado gli esiti del rapporto del National Estimate Intelligence statunitense sulla sospensione del programma nucleare dell’Iran dal 2003. L’accusa ai giornalisti occidentali è quella di essere «manipolati e asserviti agli interessi degli Stati Uniti». Per questa ragione chiede uno sforzo di obiettività per «dare notizie veritiere» sulla situazione dell’Iran. E sul dossier nucleare rimarca: «Nella nostra regione ci sono Paesi che possiedono bombe nucleari e la comunità internazionale chiude gli occhi. La politica dei due pesi e delle due misure è ingiusta».
Di origine irachena, nato 63 anni fa a Zakho, a nord di Mosul, trasferitosi in Iran nel 1976, dove poi è stato ordinato sacerdote l’anno successivo, dal 1999 mons. Ramzi Garmou è il pastore del piccolo gregge di Teheran dei Caldei: non più di 5 mila anime, la più piccola fra le minoranze cristiane (gli armeni ortodossi sono 80 mila sui 100 mila cristiani in totale) presenti nella patria dell’islam sciita, che conta 70 milioni di abitanti. «Molta gente in Europa ignora la nostra esistenza – racconta -. Quando mi presento come il vescovo di Teheran, mi chiedono: ci sono forse dei cristiani in Iran?». Durante un recente passaggio a Roma (in occasione del concistoro che ha visto il patriarca di Babilonia dei Caldei, Emmanuel III Delly, diventare il primo cardinale iracheno della storia), mons. Garmou accetta di squarciare il velo di silenzio che avvolge la sua comunità.
«I cristiani in Iran diventano sempre meno. Si pone una domanda importante per noi: quale sarà il futuro del cristianesimo nel nostro Paese?». Le cause di questa diminuzione sono molte e di difficile risoluzione: l’esodo è provocato «in primo luogo dalle minacce americane, disgraziatamente sostenute anche da alcuni Paesi europei – spiega mons. Garmou -: molti, non solo tra i cristiani, pensano che sia meglio abbandonare il Paese prima che avvenga un’altra tragedia come quella dell’Iraq. Altri motivi di fuga sono la disoccupazione e l’inflazione, che gravano sul futuro dei giovani. C’è poi il ricongiungimento familiare: molti cristiani hanno parenti all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, e vogliono raggiungerli. Infine tante famiglie pensano all’avvenire dei figli, soprattutto dal punto di vista religioso: in Iran noi cristiani abbiamo il diritto di celebrare il culto nelle chiese, che ci è garantito dalla Costituzione, ma non possiamo fare propaganda religiosa – continua il vescovo -. E molte famiglie si chiedono: con chi si sposerà nostra figlia? I matrimoni misti sono malvisti e creano molti problemi: anche questo provoca l’emigrazione. Il fatto è che in Iran se una cristiana vuol sposare un musulmano deve convertirsi all’islam».
Certo, i cristiani non vivono in un ghetto e non manca la collaborazione con i concittadini sciiti; come avviene nella maggior parte dei Paesi musulmani le scuole cattoliche sono molto apprezzate dalla popolazione. «Nella nostra scuola – spiega il vescovo – allievi cristiani e musulmani ricevono insieme l’istruzione. Viviamo nelle stesse strade, negli stessi palazzi ed è un bene che sia così. In casi di emergenze nazionali, ad esempio dopo il terremoto di Bam del 2003, molte organizzazioni caritative internazionali sono venute a dare una mano e c’è stata tanta solidarietà da parte di religiosi e volontari cristiani, anche di Teheran, verso la popolazione locale».
Monsignor Garmou è convinto che dall’estero si possa fare molto per proteggere la presenza cristiana in Iran: «A mio avviso – dice – la prima cosa da fare per i cristiani non solo dell’Iran, ma soprattutto dell’Iraq, dove ha sede il nostro patriarcato e vive la maggioranza dei fedeli caldei, è pregare per queste comunità. In secondo luogo, dare informazioni veritiere sulla situazione dei nostri Paesi, perché l’opinione pubblica all’estero abbia un’idea corretta su quello che sta avvenendo. Poi c’è la questione politica da risolvere: le minacce americane degradano la situazione politica e la destabilizzano. Il nostro ruolo è esigere che la politica internazionale sia basata sul rispetto dei diritti umani e sull’integrità territoriale, non sugli interessi di un solo Paese». Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad non ha certo fama di essere un democratico e non ha un rapporto disteso con la comunità internazionale.
Monsignor Garmou ammette che «sì, gli iraniani hanno sofferto molto»: prima la monarchia, poi il colpo di Stato della Cia nel 1953, la feroce dittatura dello scià e la rivoluzione degli ayatollah. A distanza di trent’anni da quegli eventi restano ancora drammaticamente eluse le aspirazioni di giustizia e libertà che accompagnarono l’ascesa di Khomeini: «La storia dimostra che quando un regime non ha rispettato la volontà del suo popolo, quando l’ha sfruttato, quando ha cercato solo interesse e potere, ebbene quel regime non può durare in eterno. Occorre dunque apprendere dal passato: molte dittature sono state rovesciate dalla lotta popolare. In Iran, come in tutti i Paesi, ci sono problemi economici e sociali. Spero, e questa è anche la mia preghiera, che non manchino mai uomini di buona volontà che cerchino veramente di servire il popolo, perché il suo avvenire possa essere migliore. E più felice».